Luigi Di Maio (foto LaPresse)

L'Italia cresce solo se crescono i salari

Claudio Cerasa

Dopo i migranti, il lavoro. Come si risponde alla demagogia populista? Perché politici, imprenditori e sindacati hanno il dovere di lanciare una grande sfida al qualunquismo populista mettendo più soldi nelle tasche dei lavoratori. Idee

Succede oggi osservando il Matteo Salvini che gioca con l’immigrazione e succederà domani osservando il Luigi Di Maio che giocherà con il lavoro. Il punto, in fondo, è sempre lo stesso: cosa può fare un’opposizione critica ma costruttiva per combattere le idee pazze dei populisti senza essere sempre sulla difensiva ma provando a giocare ogni tanto una partita offensiva? I ministeri guidati dal leader della Lega e dal capo politico del Movimento 5 stelle saranno per forza di cose quelli in cui maturerà il numero maggiore di proposte finalizzate ad assecondare lo spericolato mandato conferito a Di Maio e a Salvini dai follower sovranisti. E nelle prossime settimane, lo stesso approccio muscolare messo in campo dal ministro dell’Interno negli ultimi giorni sul tema dei migranti con ogni probabilità verrà replicato dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo (speriamo non sottosviluppo) nel momento in cui dovrà trovare un modo per rassicurare i suoi elettori sul tema dei temi: il reddito di cittadinanza. E quando il ministero di Luigi Di Maio muoverà i primi passi per riformare i centri per l’impiego, passaggio necessario per mettere in cantiere il reddito di cittadinanza, l’opposizione dovrà trovare un modo per spiegare l’impossibile: come trasformare in una battaglia popolare una battaglia altamente impopolare, come quella combattuta contro una riforma che nella narrazione populista altro non è che un aiuto universale a chi si trova in una condizione di povertà. Trovare una chiave non è semplice ma l’occasione della discussione futura del reddito di cittadinanza dovrebbe essere quella per costruire una grande campagna politica e culturale finalizzata a rimettere al centro dell’attenzione, anche del sindacato, un tema centrale: non il reddito di chi non lavora ma il salario di chi lavora. Lo ha detto bene Papa Francesco, esattamente un anno fa, quando, parlando di fronte ai lavoratori dell’Ilva di Cornigliano, ha ricordato che per una politica con la testa sulle spalle “l’obiettivo non è un reddito per tutti ma un lavoro per tutti, perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti”. E lo ha detto con coraggio qualche settimana fa persino la diocesi di Palermo che attraverso le parole di monsignor Corrado Lorefice ha ricordato – scandalo! – un tema che dovrebbe essere al centro di ogni battaglia combattuta contro i furbetti del sussidio: “Sul reddito di cittadinanza il problema è culturale e non sarà risolto se non promuovendo vigorosamente al Sud una cultura del lavoro che, nella maggior parte della popolazione, non esiste. Nel meridione sono in molti a cercare, più che un posto di lavoro, un posto di stipendio, dove si lavori il meno possibile”. Per smascherare la truffa grillina sul lavoro, e provare a contrapporre alla dannosa fuffa populista una utile controproposta popolare, è necessario dunque combattere una poderosa battaglia politica per dimostrare che il reddito di cittadinanza è il più grande alleato dello status quo perché non permette di concentrarsi sui due grandi temi che riguardano il futuro del lavoro del nostro paese: da una parte i salari che non salgono come dovrebbero e dall’altra parte le aziende che non producono lavoro come potrebbero.

 

I dati li conosciamo tutti. Il salario medio lordo in Italia è di 35.483 euro l’anno per ogni lavoratore single senza figli, tenendo conto sia delle tasse sul reddito, sia dei contributi sociali, ed è il diciannovesimo salario lordo più alto tra i 35 paesi Ocse. Su questo salario lordo la tassazione in Italia è del 31,1 per cento, di cui il 21,6 per cento è legata alla tassazione sul reddito, e il 9,5 per cento ai contributi sociali pagati dai lavoratori. Fino allo scorso anno, poi, le tasse e i contributi sociali ammontavano nel nostro paese al 47,7 per cento nel caso di un lavoratore single, contro la media Ocse del 35,9 per cento. Mentre per una famiglia di quattro persone, con un unico percettore del reddito, il cuneo fiscale è del 38,6 per cento, contro la media Ocse del 26,1 per cento. Sappiamo questo e sappiamo che a tenere bassa la crescita dei salari reali italiani negli ultimi vent’anni non è stata né l’incidenza fiscale e contributiva né tantomeno la partecipazione all’Unione monetaria – se dal 1996 a oggi i salari reali medi in Italia sono cresciuti solo del 6,3 per cento è anche perché nello stesso periodo la produttività del lavoro nel nostro paese è cresciuta appena del 5,8 per cento (34,2 Regno Unito,e 31,3 per cento Stati Uniti, 15,1 per cento Germania, 25,5 per cento Francia). Ma soprattutto sappiamo anche che oggi in Italia l’unico modo per costruire un’alleanza finalizzata a sostenere più il lavoro che l’assistenzialismo è un’alleanza che parte da qui: dal costruire una nuova stagione di civili lotte sociali per portare più soldi nelle tasche dei lavoratori.

 

Per farlo ci sono un’infinità di strategie che si possono adottare e un’infinità di controproposte che si possono presentare per evitare di spendere fino a trenta miliardi di euro all’anno per sussidiare un reddito di cittadinanza che promette di essere il peggiore alleato di una buona politica finalizzata a fare di tutto per migliorare le condizioni di lavoro (e combattere così la disoccupazione, non rassegnarsi a essa). I salari si possono aumentare indirettamente portando la no tax area da quota 8 mila euro a quota 12 mila euro (era la proposta di Forza Italia in campagna elettorale e a quella proposta lavorò anche l’attuale ministro dell’Economia Giovanni Tria). Si possono aumentare scommettendo tanto sulla riduzione delle aliquote fiscali sul lavoro quanto sulle agevolazioni fiscali adottate in azienda, legando quote di salario al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. Si possono aumentare intervenendo direttamente sui minimi contrattuali, e non sui salari minimi, attraverso una migliore regolamentazione della contrattazione aziendale. Si possono scegliere molte strade ma ciò che dovrebbe essere oggi al centro di una grande rivolta politico-sindacale non è rincorrere Lega e Movimento 5 stelle su chi ha più lungo il reddito di cittadinanza. Ma è dimostrare che l’Italia tornerà a crescere solo se avrà il coraggio di concentrare le sue risorse e le sue forze sull’unica grande battaglia che meriterebbe di essere combattuta per mettere più soldi nelle tasche degli italiani: creare le condizioni per avere più posti di lavoro e mettere nelle buste paga dei lavoratori più soldi di oggi.

 

Non è un discorso marxista, un discorso leninista, un discorso comunista, un discorso neo sindacale. E’ l’essenza di una società libera e aperta come ha ricordato qualche mese fa non un pericoloso estremista sindacale ma un misurato presidente della Banca centrale europea che in un discorso a Francoforte, a ottobre, ha ricordato che in Europa, e soprattutto in Italia, la bassa crescita dei salari è “ben al di sotto delle medie storiche”, che una bassa crescita dei salari rallenta l’inflazione e che sui salari bassi pesano alcune componenti importanti. I sindacati che spesso scelgono di dare priorità alla sicurezza del posto di lavoro barattando in alcuni casi minori salari con minore flessibilità. Il sottoutilizzo della capacità produttiva del nostro paese. E il fatto che in molti paesi, ha ricordato Draghi a fine 2017, le contrattazioni si sono già concluse per l’anno in corso. Fino a quando i salari resteranno bassi, la crescita resterà bassa – e la promessa di questo governo di scommettere sul salario minimo e sul reddito di cittadinanza, con zero attenzione alla produttività, è destinata paradossalmente a livellare verso il basso tutti i salari. E se in Italia ci fossero forze politiche illuminate, imprenditori coraggiosi, sindacati non conservatori per lanciare sul lavoro una sfida alla demagogia populista dovrebbero ripartire da qui: senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti e senza salari più alti non ci può essere dignità per l’economia italiana.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.