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Se l'economia rallenta troppo, il sentiero della ripresa sarà più stretto

Marco Fortis

Servono fiducia, credibilità e riforme, o il futuro dell’Italia potrebbe essere quello di una Grecia formato maxi

Le numerose statistiche e previsioni economiche diffuse negli ultimi giorni non lasciano molti dubbi circa un rallentamento dell’economia europea e italiana nel 2018. La crescita continua, mantiene elementi di solidità ma non ha più il vigore che aveva addirittura sorpreso nel 2017. Rispetto alle precedenti previsioni di primavera, nel suo Interim report estivo la Commissione europea a distanza di poche settimane ha già ridotto le stime di crescita del pil dei tre maggiori paesi dell’Eurozona nell’anno in corso in misura significativa: di ben quattro decimali (da più 2,3 a più 1,9 per cento) per la Germania; di tre decimali (da più 2 a più 1,7) per la Francia; di due decimali (da più 1,5 a più 1,3 per cento) per l’Italia. Anche il tasso tendenziale annuo di crescita della produzione industriale, secondo l’Eurostat, è calato parecchio. Rispetto a dicembre 2017 a maggio 2018 è sceso da più 7,1 per cento a più 3 per cento in Germania, da più 5,4 per cento a più 2,1 per cento in Italia, da più 3,7 addirittura a meno 0,6 per cento in Francia. Il commercio estero rallenta, pesa l’incognita dei dazi. Frenano un po’ ovunque nell’Eurozona anche i consumi delle famiglie per effetto del rincaro dei prodotti energetici, amplificato dall’indebolimento dell’euro.

 

Se per molte nazioni europee una dinamica economica meno veloce ma costante non rappresenta di per sé un problema rilevante, per l’Italia invece sì. Per due ragioni principali.

 

La prima è che l’Italia ha bisogno di recuperare ancora molto del terreno perduto durante la lunga crisi 2008-2013, in particolare in termini di occupati a tempo pieno e di reddito delle famiglie. Solo così si stempereranno i disagi, il malcontento e i divari sociali e territoriali non completamente guariti.

 

La seconda ragione è che solo con una significativa crescita del pil nominale (cioè del pil reale più l’inflazione) sarà possibile ridurre il nostro rapporto debito/pil, che non può permettersi il lusso, dopo essere stato faticosamente stabilizzato, di restare fermo intorno al 130 per cento. Infatti, se arrivasse una nuova crisi balzerebbe inevitabilmente al 140 per cento o più, livello che ci esporrebbe a una perdita di fiducia e di credibilità enorme. Il debito/pil, parametro a nostro avviso non esaustivo della reale sostenibilità dei conti pubblici, ma comunque ritenuto il “vangelo” da agenzie di rating, mercati e investitori, va ridotto nelle fasi espansive. Se non si approfitta di periodi economici positivi per ridurlo poi durante una recessione è subito buio pesto. E il prossimo passo per l’Italia, in caso di una nuova gelata dell’economia, potrebbe essere quello di una Grecia in formato maxi.

 

Se, in base alle rilevazioni mensili delle forze di lavoro Istat, grazie alle decontribuzioni e al Jobs Act a maggio 2018 abbiamo oltre 1 milione e 200 mila occupati in più rispetto al fondo della crisi, toccato a inizio 2014, e oltre 200 mila occupati in più rispetto ai precedenti massimi del 2008, ci mancano ancora molti occupati equivalenti a tempo pieno e molte ore lavorate rispetto al periodo pre crisi. E’ il lavoro perso principalmente a causa di quella parte della manifattura e dell’edilizia che sono state spazzate via per sempre dalla doppia recessione (2009 e austerità 2012-13). Sono posti di lavoro che non torneranno mai più indietro: chi crede il contrario, o che sia colpa del Jobs Act se non si ricostituiscono come per magia, non ha la minima idea di come funzioni realmente l’economia. Dato che è già un successo se, stante il suo decremento storico progressivo, la manifattura mantiene gli attuali occupati, incrementandone la produttività con investimenti e innovazione, c’è un solo modo per accrescere le unità di lavoro a tempo pieno e il monte ore lavorate complessivo della restante parte dell’economia. Cioè lasciare che i settori che si sono rivelati più dinamici in termini di domanda di lavoro nel corso della ripresa, come il turismo, l’agricoltura di qualità, il commercio all’ingrosso, i grandi centri commerciali, certe tipologie di servizi professionali, di servizi per le imprese e per le famiglie, continuino gradatamente ad assumere. Non importa in che forma (a tempo indeterminato, tempo determinato, voucher, ecc.), ma che lo facciano, punto e basta. In questo senso il decreto dignità (definito “indegno” dal presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti) e la proposta di legge per le chiusure domenicali e festive degli esercizi commerciali avanzata da alcuni deputati della maggioranza vanno invece esattamente nella opposta direzione. I promotori ne sono consapevoli?

 

Analogamente, guai a intaccare quel miglioramento di fiducia e di credibilità nell’Italia di cui ha più volte parlato il direttore Cerasa e che è stato, almeno in parte, faticosamente ricostruito negli ultimi anni: miglioramento che ha favorito il ritorno degli investimenti stranieri nel nostro paese. Come è accaduto, ad esempio, nell’industria farmaceutica, in cui, grazie all’aumento della capacità produttiva delle multinazionali estere sul nostro territorio, il valore aggiunto della manifattura italiana ha perfino superato in valore quella tedesca: 31,2 miliardi di euro noi, contro i 30 miliardi dei tedeschi. L’Italia – sembrava quasi solo un sogno fino a qualche anno fa – è effettivamente diventata l’hub manifatturiero farmaceutico d’Europa. Si può dunque fare hi-tech anche in Italia se si favorisce il mercato anziché ostacolarlo. All’opposto, nel caso dell’Ilva, trattando i Mittal come Lanzichenecchi e “consegnandoli” a Cantone si rappresenta agli occhi del mondo un ideologico sentimento anti industriale che non favorisce certamente l’attrattività degli investimenti esteri in Italia.

 

In definitiva, fiducia e credibilità, assieme alle riforme, sono le chiavi della modernizzazione del nostro paese. Qualunque cambiamento in senso contrario non sarebbe un avanzamento ma un pericoloso arretramento. Perché il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno è avanzare non arretrare. Questo è il punto politico chiave del nostro paese. Tutto il resto è aria fritta.

 

Ciò detto, c’è da chiedersi se gli esponenti del nuovo governo conoscano i numeri fondamentali della nostra economia, altrimenti rischiano di combinare grossi pasticci. E in particolare è il M5s a rischiare grosso. Perché se Salvini può incrementare “a costo zero”, almeno nel breve termine, il proprio consenso con il ballon d’essai degli immigrati, il costo potenziale degli errori che Di Maio può inanellare in campo economico è elevatissimo, sia in termini di sperpero di risorse mal destinate, inseguendo obiettivi puramente ideologici o populisti, sia in termini di freni artificiali imposti alla crescita e di pericoloso arretramento dell’economia.

 

E se la crescita rallentasse, ci sarebbe ben poco da scherzare anche con i conti pubblici, perché il debito/pil ha sì il debito al numeratore ma al denominatore ha, per l’appunto, il pil. Pur assumendo un aumento dell’inflazione nei prossimi mesi, il progresso che ne deriverebbe al pil nominale sarebbe bruciato dal rallentamento del pil reale. Dunque, il sentiero rimane stretto per i conti pubblici italiani. Anzi, rischia di diventare ancora più stretto se verrà sperperato il lavoro buono fatto dagli ultimi due governi. Le imprese ormai l’hanno capito o cominciano a capirlo. Quando cominceranno a capirlo anche gli elettori e gli stessi politici che gli elettori hanno mandato al governo potrebbe essere troppo tardi.

 

La crescita continua, mantiene elementi di solidità ma non ha più il vigore che aveva sorpreso nel 2017. Rispetto alle precedenti previsioni di primavera, nel suo Interim report estivo la Commissione europea a distanza di poche settimane ha già ridotto le stime di crescita del pil dei tre maggiori paesi dell’Eurozona

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