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Consigli ai nazionalizzatori seriali

Redazione

Caro Di Maio, pubblico non è bello se non è libero di stare nel mercato

Tra il 2013 e il 2017 la manifattura italiana, nostro fiore all’occhiello, ha aumentato il giro d’affari del 34,5 per cento nel settore privato, e lo ha ridotto del 17 nel pubblico. Questo mentre tra i 42 maggiori gruppi industriali (manifattura, energia e servizi), ben il 63 per cento del fatturato fa capo ad aziende di stato, su tutte Enel ed Eni, e il 37 è in mani private, e tra queste solo il 7,1 straniere. Sono i dati dell’ultimo annuario R&S di Mediobanca, che offre anche confronti con Germania, Francia e Regno Unito. Gli ultras dell’autarchia statalista, soprattutto il Movimento 5 stelle ma anche la Lega (dossier Alitalia), dovrebbero studiare queste cifre.

  

Di per sé una gestione pubblica poco dinamica e lontana da logiche di mercato ovviamente non fa bene alle imprese, e se è inevitabile per i grandi player dell’energia e nelle grandi aziende infrastrutturali che necessitano di forti investimenti, sarebbe bene lasciare massima libertà ai manager anziché dettare piani simil-sovietici come è stato appena fatto con le Ferrovie dello stato.

  

L’analisi mediobanchesca rivela anche come la manifattura italiana, pur forte, sia però anche quella che investe meno: riferendosi ai 10 maggiori gruppi, gli italiani hanno investito 18 miliardi nei cinque anni, i tedeschi 426, i francesi 71, i britannici 32. E il motivo è al solito la dimensione ancora insufficiente e la scarsa globalizzazione (per chi ha una presenza multinazionale come Fca e Luxottica vengono contabilizzati solo investimenti e ricavi in Italia): la capitalizzazione dei maggiori gruppi italiani resta ultima tra i quattro big europei e le prime tre aziende tedesche, Volkswagen, Daimler e Bmw, valgono quasi la metà della nostra Borsa. Almeno le aziende pubbliche italiane creano più lavoro? Non proprio: l’occupazione cresce solo nell’industria privata (2,7 per cento). Luigi Di Maio, bi-ministro dello Sviluppo e del Welfare, nonché assertore del “felice” localismo assistito, dovrebbe rifletterci. Certo, se ci riuscisse.

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