Il linguaggio che può trasformare un paese sano nella nuova Grecia

Claudio Cerasa

Come è possibile rendere un paese impresentabile senza fare neppure una riforma. Mattarella e la lezione Varoufakis

Nel gennaio del 2015, dopo un’elezione incredibile che fece segnare un trionfo rotondo dei partiti antisistema e una sconfitta sonora dei partiti di sistema, un movimento guidato da un giovane leader populista con il cuore saldamente a sinistra riuscì ad arrivare al governo del suo paese stringendo un patto apparentemente innaturale con un partito guidato da un leader con il cuore fieramente a destra. Il giovane leader vincitore alle elezioni, Alexis Tsipras, una volta trovata la giusta combinazione in Parlamento con il suo improvviso alleato, Pànos Kamménos, dopo aver lanciato il suo governo del cambiamento con una frase rimasta scolpita nelle cronache politiche del suo paese – “Oggi il popolo ha scritto la storia, la speranza ha scritto la storia e la Grecia volta pagina!” – convinse il capo dello stato a far partire un governo in grado di creare discontinuità con il poco popolare ma assai efficace esecutivo precedente, il governo Samaras, e riuscì a mettere su un piedistallo più alto la volontà popolare e su un piedistallo più basso l’interesse nazionale attraverso una scelta che passò tristemente alla storia per il popolo greco: offrendo la guida del ministero più importante dell’esecutivo, quello delle Finanze, a un economista famoso per le sue posizioni fieramente antieuropeiste. Nel giro di poche settimane, le parole antieuropeiste del ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis – molto apprezzate all’epoca da diversi economisti europei, tra cui alcuni italiani, compreso un certo Paolo Savona che nell’estate del 2015 ebbe modo di elogiare il coraggio con cui “Varoufakis ha osato sfidare i poteri costituiti europei” (Milano Finanza, primo agosto 2015) – ebbero l’effetto di creare attorno al suo paese un sentimento di sfiducia legato non tanto alle riforme messe in cantiere dal governo ma quanto semplicemente al linguaggio usato dalla pazza banda di governo. In quelle settimane, il primo governo populista d’Europa – e fu anche quello un governo rosso-nero – ricordò che la sovranità di un paese non può essere ostaggio della sovranità europea. Annunciò che ciò che chiedono i mercati non può essere più importante di ciò che chiedono i cittadini. Propose alla Germania di Angela Merkel di pagare, a titolo di risarcimento, 279 miliardi di euro di debiti insoluti riguardanti i danni subiti dalla Grecia durante l’occupazione nazista della Seconda guerra mondiale. E di fronte ai primi segnali di sfiducia da parte degli investitori stranieri scelse di sfidare i tecnocrati europei con alcune mosse tristemente passate alla storia.

 

Primo: proponendo di tagliare il rimborso dei bond detenuti dalla Bce.

 

Secondo: proponendo di togliere il controllo della Banca di Grecia alla Bce.

 

Terzo: facendo sapere di essere pronti a creare liquidità parallela in formato elettronico per avere una seconda moneta a disposizione in caso di chiusura dei rubinetti europei.

 

“Quello che stanno facendo con la Grecia – affermò il ministro delle Finanze del governo – ha un nome: si chiama terrorismo. Perché ci hanno costretto a chiudere le banche? Per instillare la paura nella gente. E quando si tratta di diffondere il terrore, questo fenomeno si chiama terrorismo. Ma confido che la paura non vinca”.

 

Nel giro di pochi mesi, il debito pubblico della Grecia, la cui sostenibilità era legata da anni a un piano di rientro firmato nel 2010 con la Troika, diventò insostenibile. Le banche chiusero gli sportelli. I prelievi vennero contingentati. Agli istituti di credito non venne più data la possibilità di avere accesso alle regolari aste di finanziamento della Bce dando in garanzia titoli di stato. E il governo, dopo pochi mesi, scelse di indire un referendum consultivo per chiedere ai greci se fosse giusto o no seguire i diktat europei. Sappiamo tutti come è finita.

 

Proiettata nel contesto politico di oggi, nel contesto politico dell’Italia dei Di Maio, dei Salvini, dei Mattarella, la storia della Grecia potrebbe apparire eccessiva concentrandosi solo sulle condizioni economiche effettive del nostro paese. Ma il ragionamento cambierebbe in un lampo portando la nostra attenzione su un altro piano non meno importante rispetto a quello economico: il linguaggio dell’irresponsabilità. In Grecia fu sufficiente introdurre nel dibattito interno al governo pillole di antieuropeismo militante per far sedimentare attorno al paese un clima di sfiducia – e non furono sufficienti un paio di ministri tecnici voluti dal capo dello stato per mettere l’interesse nazionale non in contrapposizione con la sovranità popolare. Per gli investitori stranieri – quelli brutti, sporchi e cattivi e che però ogni giorno aiutano a non mandare gambe all’aria il nostro paese custodendo nella propria pancia 686 miliardi di titoli di stato italiani – a volte basta una dichiarazione avventata per non avere più fiducia in una nazione. E a questo punto del nostro ragionamento vi chiediamo un piccolo sforzo e di rispondere voi a un paio di nostre domande.

 

Vi fidereste o no di un paese che, pur non mettendolo nero su bianco in un contratto di governo, arriva a pensare di uscire dall’euro e lo fa sapere? Vi fidereste o no di un paese in cui il fondatore del principale partito afferma, senza essere smentito dal capo politico dello stesso partito, di volere un referendum sull’euro? Vi fidereste o no di un paese in cui il capo politico del primo partito di governo per spiegare in che modo troverà le coperture per rendere credibile il contratto di governo (tra i 70 e i 100 miliardi di euro a regime) dichiara (18 maggio) che “le entrate sono nei margini in Unione europea che dobbiamo andarci a riprendere per poter spendere i soldi” senza ricordarsi, come ha scritto il professor Sabino Cassese su questo giornale, che (a) “non è l’Unione che gli potrà dare i soldi, ma sono i risparmiatori italiani, che pagherebbero due volte, sottoscrivendo titoli rischiosi e vedendo svanire le possibilità per il paese di agganciarsi alla ripresa; e che (b) “il nuovo governo può anche richiedere di allentare i vincoli, ma non sa se ciò verrà concesso, e quindi vende la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato”. Vi fidereste o no? E vi fidereste voi di un partito di governo che dopo aver promesso in campagna elettorale di fare di tutto per uscire dall’euro oggi fa di tutto per avere un ministro dell’Economia capace di non escludere un percorso di allontanamento dall’euro? E infine: vi fidereste o no di due partiti che dopo aver promesso, in modo più o meno diretto, di essere disposti a rimettere in discussione il rapporto tra l’Italia, l’Europa e la moneta unica arrivano a scrivere nel proprio contratto di governo, che il presidente del Consiglio incaricato ha promesso di voler rispettare alla lettera, un passaggio in cui si accenna alla “ridiscussione dei Trattati dell’Ue”?

 

Nel 2015, in Grecia, dopo il disastro dell’era dei mercati trattati come terroristi dell’Isis, ci vollero sette mesi prima di far nascere un nuovo governo – stavolta senza Varoufakis – rispettoso oltre che della sovranità popolare anche degli interessi nazionali. In Italia un governo ancora non è nato, e probabilmente nascerà oggi, ma al momento sappiamo che per rendere presentabile l’impresentabile a Sergio Mattarella servirà qualcosa in più della maschera rassicurante del professore Giuseppe Conte. L’Italia, come ha ricordato pochi giorni fa in uno splendido articolo sul Financial Times Martin Wolf, non è la Grecia. Ma non tutte le differenze tra la Grecia e l’Italia sono incoraggianti. La nostra economia è dieci volte più grande di quella greca. Il nostro debito pubblico è numericamente, non percentualmente, sette volte più grande di quello greco. Ed è vero: gli sforzi fatti negli ultimi sette anni dal nostro paese hanno messo l’Italia in una condizione di sicurezza. Ma quando il presidente della Repubblica darà il via libera definitivo ai campioni del nuovo governo farà bene a ricordarsi una cosa: per rendere poco credibile un paese non servono necessariamente riforme non credibili, a volte bastano semplicemente linguaggi incredibili e semplicemente irresponsabili. L’Italia è troppo grande per fallire ma se il governo Conte seguirà la traiettoria del governo Varoufakis potrebbe non essere sufficiente il ciuffo ordinato di un professore gentile a salvare l’Italia. Un paese too big to fail ma allo stesso tempo, forse, troppo grande per essere salvato. Finché siamo in tempo, forse, conviene pensarci su.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.