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Governo e condizionale

Tra cambiamento e naufragio, Conte dice che si fa. Ma le facce no

Trattativa sfiancante, “Vi stiamo dando il premier, non potete dirci chi va all’Economia”. Saluti e scatoloni. Il (vero) nodo Comunicazioni

Roma. Tutto si complica, salta la consegna della lista dei ministri al Quirinale e il governo “del cambiamento” per qualche ora, ieri, ha rischiato il naufragio. In serata però l’ottimismo: “Chiudiamo, ce la facciamo al cento per cento”. Oggi, pare, il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, dovrebbe sciogliere la riserva al Quirinale e presentare al capo dello stato la lista dei ministri. Ma nulla è certo. E chi ieri ha partecipato, a Palazzo Chigi, ai saluti del presidente del Consiglio uscente Paolo Gentiloni, non ha potuto fare a meno di notare la sequenza di verbi al condizionale usati dal premier in scadenza e riferiti a quello che “dovrebbe”, “potrebbe”, “sembrerebbe” succedere nella politica italiana. Dario Franceschini, ministro della Cultura, si è fatto fotografare con gli scatoloni. Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo, ha lasciato l’ufficio con l’immagine del computer spento. Gentiloni, invece, pare non abbia ancora portato via gli scatoloni. Forse vorrà dire qualcosa, o forse no.

 

Appena uscito ieri mattina dall’incontro con Matteo Salvini e Giuseppe Conte, Luigi Di Maio racconta ai suoi amici di essere preoccupato. A un certo punto il capo politico del M5s li lascia pensare che “forse salta tutto”. Eppure si è andati troppo avanti ormai, perché davvero tutto possa saltare. “Mi è parso di vedere un ombra di pentimento anche nello sguardo di Salvini”, scherzavano ieri sera gli spettatori interessati di Fratelli d’Italia. Perché è vero: la confusione è massima. Non c’è solo il presidente della Repubblica che vuole essere un po’ più rispettato nelle sue prerogative costituzionali, e dunque intende dire la sua sulla lista dei ministri e sugli indirizzi del nuovo governo (d’altra parte è stato Sergio Mattarella a indirizzare, ieri mattina, il premier incaricato Conte verso il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco). E non ci sono nemmeno soltanto le tante e trasversali pressioni sulla Lega affinché sostituisca Paolo Savona nel ruolo delicatissimo di ministro dell’Economia (“Savona invece mettiamolo agli Esteri”), proprio nei giorni in cui lo spread sale, raggiunge quota 200, e la Borsa invece cala soprattutto sui titoli bancari.

 

L’intera impalcatura dell’alleanza di governo, la miscela alchemica di M5s e Lega, si fa instabile negli equilibri tra le sue due componenti. “Vi stiamo dando il presidente del Consiglio, non potete dirci chi deve fare il ministro dell’Economia”, è il senso delle comunicazioni di Salvini a Di Maio. E questo avviene mentre le obiezioni grilline su Savona si sommano a quelle leghiste sul progetto di consegnare a Di Maio un nuovo super ministero che dovrebbe nascere dall’accorpamento del ministero dello Sviluppo con quello del Lavoro. “Già è complicato spacchettarli, i ministeri. Figurarsi fonderli”, è l’obiezione che viene fatta da chi ha esperienza nella guida della macchina dello stato. Ma c’è di più, per Salvini: la grana, il pungolo di Silvio Berlusconi. Il ministero dello Sviluppo ha le deleghe anche sulla Comunicazione, su Mediaset, su Telecom… E c’è una sola richiesta, ovvia e tacita, che Forza Italia ha fatto “all’amico” padano: non un cinque stelle alle Comunicazioni. “E invece pare che ci vada proprio Di Maio. Bell’amico, Salvini!”, motteggiavano ieri pomeriggio gli uomini del Cavaliere, non del tutto sollevati dalla notizia che il leghista Armando Siri sarebbe il sottosegretario alle Comunicazioni. Mentre Salvini, consapevole, proponeva a Di Maio uno scambio per lui equo: “Se io vado all’Interno, è equilibrato che tu vada agli Esteri”. Ma poi tutto si è arenato. Mentre qualcuno, dall’interno dei Cinque stelle (pare), impallinava Vincenzo Spadafora imbeccando un articolo allusivo uscito sul Fatto. L’uomo per tutte le stagioni di cui Di Maio si fida tantissimo, e che infatti sarebbe dovuto entrare nel nuovo governo, ieri si aggirava per il Transatlantico scuro in volto: “Non farò parte dell’esecutivo”, diceva. E poi, mugugnando: “Volano i coltelli”. Da tutte le parti.

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