Foto di Roberto Santini via Flickr

Il paese dei porcellini

Stefano Cingolani

Ricordate i “Piigs”, che comprendevano Grecia, Spagna, Portogallo? Rischia di restarci solo l’Italia

Riparte lo spread, da Bruxelles lanciano fulmini e saette, il contratto giallo-verde promette spendi e spandi, c’è aria di primavera 2011, quando tutti guardavano ai Piigs e tremavano. Allora la miccia venne accesa da Atene, oggi da Roma? Già, i Piigs, l’orrendo acronimo che in inglese suona come maiale, coniato da Goldman Sachs per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, i paesi strapazzati e messi a terra dalla crisi del 2008-2012. Ce n’eravamo dimenticati ma a volte ritornano, se non altro nella pubblicistica un tanto al chilo. Solo che di quei cinque “porcellini”, è rimasta solo l’Italia. La prima cosa che balza agli occhi da una rapida carrellata ai grandi malati della lunga recessione smentisce uno dei tanti luoghi comuni. Si dice che i medici della peste membri della spettrale troika, formata da Unione europea, Fmi e Bce, abbiano applicato a tutti la stessa ricetta cioè una purga per sgonfiare lo stato sociale e consumare i salari. Così facendo il male è passato, ma il paziente è morto. Invece, le ricette sono state molto diverse, hanno aderito alle peculiarità dei paesi e alle scelte politiche dei partiti, dopo quel ferale 2011, in cui vennero messi sotto attacco i debiti sovrani e cambiarono ben cinque governi. E’ vero che la troika ha fissato gli obiettivi, ma poi ciascuno ha tracciato il sentiero a modo suo e l’appartenenza alla moneta unica non lo ha impedito, checché ne dicano i neo sovranisti.

 

La trojka ha fissato gli obiettivi, ma poi ciascuno ha tracciato il sentiero a modo suo e l’appartenenza alla moneta unica non lo ha impedito

I tagli e le riforme in Spagna. Il capitale umano, la tassazione favorevole agli investimenti esteri, i sussidi all’hi-tech in Irlanda

Il caso più clamoroso è senza dubbio la Grecia che resta ancora in condizioni peggiori rispetto agli altri, ma sembra proprio uscita dall’austerità – come ha detto il commissario Pierre Moscovici – guidata da Syriza, una formazione politica eterodossa quanto eclettica, lei sì costola della sinistra. E’ stato il più grande salvataggio economico della storia moderna, con 354 miliardi di euro, pagati dagli altri paesi dell’Eurozona (l’Italia ha contribuito con poco meno di 40 miliardi), dalla Bce, dal Fondo monetario internazionale, ma la Grecia ha evitato il fallimento e s’avvia a concludere il programma di aiuti straordinari, il terzo approvato dal 2010.

 

Tra un anno si chiude la legislatura e Syriza, che alla lotta ha preferito il governo, rischia di crollare. Il suo leader, Alexis Tsipras, che voleva fare la rivoluzione, è diventato il garante della stabilità, accettando le riforme e facendo cadere persino il tabù delle privatizzazioni. Per lodarlo, Tony Barber, sul Financial Times, è ricorso addirittura al mito paragonandolo a Ercole che libera Prometeo, perché anche “la Grecia è stata incatenata a una roccia, il suo fegato divorato da creditori esteri senza pietà come pena per aver diffuso la crisi nel resto d’Europa”. Se si votasse oggi vincerebbe la destra moderata di Nea Democratia, perché i greci stanno facendo un bagno di realismo, anche se Nuova Democrazia cavalca populismo e nazionalismo spinta dal vice presidente Adonis Georgladis che proviene dalla formazione ultraconservatrice Laos. Viktor Orbán, il leader ungherese, è diventato anche ad Atene un modello per la destra. Dai Balcani spira un vento gelido che arriva fino in Grecia dove non cessa la pressione dell’ondata migratoria: gli hotspot di Samos, Lesbos e Chios scoppiano, con oltre il doppio della capienza regolare.

 

L’immigrazione divide più dell’economia. I dati sulla congiuntura, del resto, sono positivi. Il deficit sul pil dovrebbe scendere sotto il 3 per cento quest’anno. Atene è tornata sul mercato vendendo tre miliardi dei nuovi bond a scadenza quinquennale. Una crescita reale del 2 per cento è il traguardo che può consentire un avanzo primario del bilancio pubblico (entrate meno uscite dello stato senza contare la spesa per interessi) del 2,2 per cento, superando l’obiettivo fissato dalla troika all’1,75 per cento. Dal 2010 a oggi la Grecia ha perso un terzo del prodotto lordo e un quinto della popolazione ha visto svanire il 42 per cento del potere d’acquisto; il tasso di disoccupazione, sebbene sia sceso al 21 per cento (percentuale che sale al 42,8 per cento per quella giovanile), è il peggiore d’Europa. I dipendenti pubblici sono diminuiti di circa un quarto, anche se restano tutto sommato dei privilegiati rispetto ai privati. Il turismo è cresciuto del 14 per cento l’anno scorso. Le retribuzioni tornano a salire un po’ ovunque e le stesse privatizzazioni, tanto demonizzate, non hanno provocato gli sconquassi temuti.

 

Il porto del Pireo è risorto. Gli investitori cinesi hanno speso quasi un miliardo di euro per trasformarlo in un crocevia strategico tra Europa ed estremo oriente. Il traffico è più che raddoppiato e, grazie ai lavori di ampliamento, possono ormeggiare anche le grandi navi da crociera. Ma soprattutto lo scalo dovrebbe diventare il punto di approdo della Nuova Via della Seta. Nel 2013, appena arrivati, i nuovi azionisti cinesi volevano imporre ai portuali greci contratti di lavoro asiatici. Adesso hanno firmato un accordo che prevede aumenti salariali, quattordici mensilità, welfare aziendale e quant’altro. Il prossimo passo sarà la privatizzazione del porto di Salonicco. E’ interessato l’oligarca greco-russo Ivan Savvidis, che possiede la squadra di calcio della città, il Paok, ed è considerato longa manus di Vladimir Putin.

 

Lo stato ha ancora un debito di 320 miliardi di euro, pari al 180 per cento del pil, la quota più alta al mondo dopo il Giappone. Il Fondo monetario chiede di allungare le scadenze emettendo nuovi titoli a tasso d’interesse favorevole. La questione è molto complessa perché c’è una pluralità diversa di creditori, privati e pubblici, nazionali ed esteri. Alla fine, persino Yanis Varoufakis che voleva ripudiare il debito, otterrebbe una certa rivincita. L’economista che ha rischiato di far saltare il salvataggio con la sua linea avventurista, non ha mollato l’amata moto né la bella casa con vista sull’Acropoli, va in giro per conferenze ben pagate, ha fondato un partito europeo, Diem25 (Movimento per la democrazia in Europa 2025), tra Vinicio Capossella, Luigi De Magistris, Julian Assange. I paesi dell’Eurozona non vedono l’ora di scrollarsi da dosso il fardello greco, quindi sono pronti a chiudere al più presto il dossier.

 

Se la Grecia ha sorpreso i più, la palma della rinascita appartiene senza dubbio al Portogallo. Nel maggio 2011 il governo chiede all’Europa un programma di assistenza da 78 miliardi di euro, lo stato è pressoché fallito. Il deficit pubblico supera l’11 per cento, il debito è schiacciato dalle conseguenze della crisi finanziaria. Oggi, appare come uno dei paesi più dinamici dell’intera Eurozona. Il deficit pubblico è al 2 per cento, il più basso dal 1974, la disoccupazione è tornata ai livelli del 2008, poco sopra il 9 per cento. L’austerità c’è stata davvero, e se ne è fatto carico il governo di Pedro Passos Coelho. In cinque anni il disavanzo è sceso di oltre sei punti, le tasse sono salite e le spese sono scese più di altri paesi europei. La ripresa è stata così veloce che il nuovo premier, il socialista Antonio Costa, ha potuto cancellare le misure considerate più odiose: l’orario di lavoro è tornato da 40 a 35 ore settimanali, la festa della rivoluzione è stata ripristinata, i salari pubblici sono stati rialzati. Costa, invece di stappare una bottiglia di vecchio porto, distilla prudenza e invita a rispettare le regole europee. I guai non sono finiti soprattutto nelle banche gravate di crediti marci, ma il salvataggio pubblico della Caixa Geral de Depósitos per poco meno di quattro miliardi ha iniettato ottimismo. Il segreto, secondo molti osservatori, è proprio qui: le aspettative sono cambiate e gli spiriti animali sono tornati a farsi sentire, la crescita è trainata dalle esportazioni che corrono a un ritmo doppio rispetto a quello italiano; le imprese sono state ristrutturate e l’industria si è diversificata, non più solo tessile o sughero (uno dei prodotti più tipici), ma macchinari, calzature, auto. Da qui vengono le energie che fanno parlare di nuovo miracolo portoghese. Lo stesso escamotage di attirare i pensionati d’Europa grazie agli sgravi fiscali ha fatto riscoprire questo lembo di terra baciato dall’Atlantico, per secoli rimasto il vagone di coda della Spagna, la quale ha innescato la quarta.

 

Il Fondo monetario ha confrontato i paesi sulla base della parità del potere d’acquisto e ha scoperto che la Spagna ha già superato l’Italia e tra cinque anni sarà più ricca del 7 per cento. Una rincorsa clamorosa, se si pensa che dieci anni fa l’Italia era dieci punti più in alto e che la Spagna è stata sull’orlo del collasso. Complici del sorpasso, i prezzi spagnoli, sensibilmente più bassi e un andamento demografico ancor più lento. Sono previsioni statistiche a bocce ferme come si dice, non tengono conto cioè delle molte variabili che la realtà genera in ogni momento. Si pensi alla crisi catalana, destinata ad avere anche un impatto economico. Tuttavia secondo il Fmi la Spagna ha realizzato per davvero le riforme che l’Italia per lo più solo annunciato o impostato. A sinistra si dice che si è trattato di caricare una molla sulle spalle dei lavoratori, con tagli ai salari e all’occupazione molto superiori a quelli dell’Italia, così, quando è arrivata la congiuntura positiva, l’elastico delle esportazioni ha fatto scattare in alto l’intera economia. E con una crescita più alta del previsto (2,7 per cento invece del 2,3 per cento) si riduce anche la disoccupazione (scesa dal picco del 25 al 16 per cento) e risalgono i salari. Non va sottovalutato l’impatto positivo del salvataggio bancario del 2012 con la Ue che ha imposto condizioni rigorose, ma ha fornito 41 miliardi di euro. C’è poi l’impatto positivo del turismo e dell’agroalimentare, due settori nei quali la Spagna fa una concorrenza durissima proprio all’Italia. Ma una delle differenza di fondo riguarda la spesa pubblica soprattutto per investimenti. Nel 2007 il debito pubblico era il 22 per cento del pil, oggi è al 93 per cento, un balzo superiore rispetto a quello italiano salito dal 120 al 131 per cento, ma essere rimasti sotto quota cento ha consentito alla Spagna di aumentare il disavanzo pubblico violando il limite del 3 per cento per poi mettersi in riga con il bilancio di quest’anno.

 

E’ stato il più grande salvataggio economico della storia moderna, con 354 miliardi di euro, ma la Grecia ha evitato il fallimento

La palma della rinascita va al Portogallo, oggi uno dei paesi più dinamici dell’intera Eurozona. L’industria si è diversificata

L’Irlanda sembra tornata ai tempi ruggenti della tigre celtica, quando negli anni ’90 spiazzò tutti risanando il bilancio pubblico, aumentando i salari senza alimentare l’inflazione e puntando forte sugli investimenti produttivi con il National Recovery Program, un piano economico che coinvolgeva il governo, i datori di lavoro, le banche, i sindacati e gli agricoltori. Fondamentale è stato il capitale umano, una forza lavoro di lingua inglese e cultura anglosassone ben preparata e con livelli d’istruzione addirittura migliori di quelli presenti negli Usa e nel Regno Unito. Ma senza dubbio ha fatto da volano soprattutto una tassazione favorevole agli investimenti esteri e sussidi alle imprese high-tech. Le basse aliquote (prima il 10 poi il 12,5 per cento) hanno prodotto una sorta di “effetto reddito”, visto che un terzo delle entrate derivano da imposte sulle società. La manna fiscale ha gonfiato la proprietà immobiliare (in un decennio è raddoppiato il numero delle abitazioni) finché la bolla non è scoppiata in modo fragoroso e l’Irlanda ha perduto tutto quel che aveva guadagnato. E’ stato il crollo più repentino e pesante del mondo occidentale, ma oggi il prodotto lordo cresce più della media, attorno al 4 per cento (con un rimbalzo fino al 7 per cento due anni fa), il debito pubblico è sceso dal 125 per cento (record raggiunto nel 2013) al 76 per cento, corre l’export a un ritmo del dieci punti percentuali l’anno, migliorano i salari, la piena occupazione è a portata di mano. Sono in rialzo anche i prezzi delle abitazioni (tra 12 e 13 per cento) facendo temere un nuovo crac. La ripresa fa perno ancora una volta sugli incentivi fiscali che attirano le maggiori compagnie mondiali della economia digitale o della farmaceutica. Il loro valore complessivo è stimato in 85 miliardi di euro circa un terzo del prodotto interno lordo pari a 275 miliardi. E’ una droga che falsa la via irlandese allo sviluppo, così come avvenne dieci anni fa con gli immobili, dicono i critici tra i quali Paul Krugman. Può darsi, ma un paese che ha versato lacrime e sangue più di altri, per adesso non ci bada. E’ l’aborto non la disoccupazione ad angustiare oggi gli irlandesi. Il problema, semmai, verrà dalla Brexit con le incertezze che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, quando avverrà davvero, getta sull’isola verde la quale oggi innalza più di altri la bandiera dell’euro e dell’Europa.

 

Il salvataggio europeo in Grecia, il taglio di salari e posti di lavoro in Spagna compensato dalla spesa pubblica, la ristrutturazione industriale in Portogallo, le tasse in Irlanda. Ciascuno ha imboccato la propria scorciatoia. Dal 2011 ad oggi si sono alternati ovunque governi di destra e di sinistra, più o meno moderati, la Spagna ha votato più volte senza trovare un nuovo stabile equilibrio, ogni partito ha cercato di aggiustare le politiche a propria immagine, rispettando in sostanza gli obiettivi fissati dall’Unione europea. E’ un risultato che gli euroscettici dovrebbero riconoscere. Lo ha fatto anche l’Italia, adesso però i vincitori delle elezioni vogliono rimettere tutto in discussione. Tra il 2011 e il 2013, i governi Monti e Letta hanno riequilibrato i conti pubblici aumentando le tasse e l’età pensionabile, poi Matteo Renzi ha reso più flessibile il mercato del lavoro con il Jobs act e ha introdotto alcune semplificazioni nella impalcatura burocratica che è una delle principali zavorre italiane. Tuttavia, facendo ricorso di nuovo alle spese in deficit, non ha ridotto il debito. Renzi è stato un keynesiano anche se i keynesiani non glielo riconoscono. Soltanto l’industria esportatrice ha imboccato la retta via, grazie alle nicchie di eccellenza, un modello che s’innesta su quello dei distretti fiorito tra gli anni 80 e 90. Oggi l’Italia ha un attivo nella bilancia con l’estero, in percentuale al pil, secondo solo alla Germania tra i grandi paesi europei, e doppio rispetto a quello cinese. Ma l’export rappresenta solo un quinto dell’economia, il resto ancora langue. Un languore che non ha nulla della estenuata passione romantica, ma si nutre di rancore, di rabbia, di rivalsa, le tre R che campeggiano sulle bandiere giallo-verdi.

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