Perché Paolo Gentiloni è il nostro uomo dell'anno
Il suo governo all’inizio non convinceva nessuno. Un anno dopo, con pochi tuìt, molto grigio e buoni risultati, è diventato il simbolo di un paese ottimista e trasversale, il punto di equilibrio di un’Italia alternativa all’isteria populista
Il 12 dicembre 2016 a Roma era una giornata tiepida, seppure non completamente limpida, e Paolo Gentiloni indossava una cravatta viola che sarebbe stata forse apprezzata dai prelati amici del suo antenato, ma dalla quale i cronisti intuirono subito che ci sarebbe stato poco da romanzare. Paolo Gentiloni non è un uomo di spettacolo e non bada alle scaramanzie cromatiche. “Come si vede dalla sua struttura, il mio governo proseguirà la linea del precedente”, disse dopo aver comunicato la lista dei ministri. Paolo Gentiloni non ha paura di apparire lapalissiano, e la sua ironia sottile è a disposizione soltanto di chi la sa cogliere. In filosofia sarebbe un aristotelico, o un neotomista per fatto di famiglia. O meglio ancora è un empirista: chiama le cose col loro nome, per come sono. I grossolani, la scambiano per banalità. “Non mi nascondo le difficoltà politiche”, disse anche, determinate dall’esito del referendum del 4 dicembre. La catastrofe che aveva schiantato Matteo Renzi e consegnato a lui il ruolo di eroe della Necessità. Salì “sull’ottovolante”, dixit. Denis Verdini, che era stato escluso dalla nuova squadra, gli mandò un sarcastico augurio, “lunga vita al governo”, quasi uno “stai sereno” di pungente fiorentinità. Ma quella volta non ci azzeccò. Il governo di Paolo Gentiloni è durato tutto il tempo che doveva durare (“il governo dura finché ha la fiducia”. Aristotele, La Palice). Qualcosa più di un anno. Arriverà a chiudere in modo naturale la legislatura che Sergio Mattarella dichiarerà chiusa a breve sciogliendo le Camere e indicendo elezioni, ma con un governo non mai sfiduciato. Perché governo non sfiduciato è buono per un’altra battaglia, per parafrasare il proverbio. E’ già capitato in Spagna, sta capitando a Berlino.
Era finita l'epoca del Rottamatore giovane e immaginifico,
una dissolvenza aveva riportato
la politica in bianco e nero
Il 13 dicembre aveva ricevuto la fiducia della Camera, il 14 del Senato. Alla Camera aveva detto, in replica: “Bisogna farla finita con l’apparentemente inarrestabile escalation di violenza verbale nel nostro dibattito politico. Il Parlamento non è un social network”. Con ciò chiudendo virtualmente i canali d’ascolto per la canea grillina, che avrebbe continuato a pestare l’acqua nel suo mortaio e il vuoto nelle zucche del suo 27 per cento. Un linguaggio politico in controtendenza per l’Italia degli ultimi anni, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si preparava la presa del potere del tuittarolo senza filtri. Ma siccome Gentiloni è aristotelico, i fatti testardi gli hanno dato ragione: non si governa con i Pater noster, ma nemmeno con i tuìt: i social network quest’anno sono finiti tutti in castigo.
I primi tempi fu dura, quel governo nato per interposta persona, per intervenuta iattura, non convinceva nessuno che potesse durare. Né gli amici né i nemici né i commentatori, al solito i più tardi a prendere atto degli eventi. Agli italiani fece un effetto di noncuranza, o di Valium. Era finita l’epoca del Rottamatore giovane e immaginifico, una dissolvenza incrociata da cinema d’altri tempi aveva riportato i rituali d’altri tempi, la politica in bianco e nero. Gli sfottò sul governo fotocopia arrivavano persino dagli uscieri di Palazzo Chigi. La data di scadenza, le battute tutte uguali sul fatto che fosse nobile, che fosse grigio, che fosse stato extraparlamentare, anzi no ex democristiano (non lo è mai stato), che giocava a tennis, anzi forse preferisce i libri, che sembrava il clone di Mattarella, anzi forse di Forlani. Poco altro da dire e niente da capire, come cantava De Gregori quando erano giovani entrambi, nella Roma con l’eskimo. Luciana Castellina disse: “Da extraparlamentare era bravo, poi non so cosa gli sia capitato”. Ma a conti fatti è l’unica cosa che la sinistra che più a sinistra non si può sia riuscita a dire, in un
Dei suoi difetti ha fatto virtù.
Ha attuato un programma politico adeguato ai nuovi tempi,
con morbide curve a evitare le buche più dure
anno.
Di tutti i suoi difetti, o presunti tali, il presidente Gentiloni, l’uomo Paolo Gentiloni, ha fatto il suo abito e ha fatto virtù. Ha attuato un programma politico adeguato ai nuovi tempi, con morbide curve a evitare le buche più dure. Ovviamente invece c’era molto da capire. Tempo di ritorno alla Prima Repubblica, al proporzionale, alle coalizioni sghembe e persino alla concertazione sindacale. Ha fatto virtù (e ci ha giocato e ci gioca anche su, da politico vero) della differenza che si portava addosso come un inevitabile cappotto. A partire dalla distanza istintiva, posturale, comunicativa con Matteo Renzi. Quello un eroe popolano, un sindaco del fare, un estroverso nato, un battutista compulsivo, un polemista irrefrenabile. Lui un chierico o persino un mandarino, un piegare la testa in avanti assertivo o dubitativo, ma sempre lo stesso gesto, l’ironia in levare più che in battere, riservata a pochi, le parole mai a ruota libera, sempre arginate. Renzi padrone della scena, del suo corpo e delle sue mani nei discorsi dal palco e nell’interloquire personale, come chi è nato attore o imbonitore; lui sempre un po’ di sbieco anche quando è al centro del palco, lui che le mani non sa mai dove metterle, quando parla: vuoi in tasca, vuoi pendenti e incrociate davanti al busto, lievemente pretesco. Lui con il suo grado zero persino nel vestirsi, sempre uguale a se stesso nel mutare del tempo e dei ruoli, senza però il dandismo accademico di Mario Monti, senza il casual a volte eccessivamente casuale di Matteo, il Renzie.
Adesso che è finito l’anno, e si passa ai bilanci, la percezione è cambiata. Chi parla di Partito Gentiloni, chi di “gentilonismo” addirittura. Gli si attribuisce un progetto politico cui nessuno prima credeva, e quel che prima era insignificanza ora diventa una filosofia premeditata, ben meditata. Sergio Mattarella ci ha sempre creduto, alla durata futura (donec aliter provideatur), ma ora è diventato il nuovo luogo comune: Berlusconi, Violante, Finocchiaro. Calenda e Padoan pour cause. “E’ il candidato naturale”, per Carlo de Benedetti. “Il passaggio dall’uomo solo al comando all’uomo sodo al comando”, definizione fogliante, portava con sé decisive conseguenze, per quanto non tutti né subito le capirono. Lui sì. La prima, che come la scelta del premier era tornata a non spettare più al popolo, così il governo tornava ad essere una funzione separata, quasi autonoma, rispetto ai partiti. Si dura finché c’è la fiducia, o finché ci sono cose da fare. A poco a poco, hanno dovuto farsene una ragione un po’ tutti, tranne qualche sventato che si ostina a mettere il proprio nome sulla lista. Piace, questa nuova situazione politica, a Gentiloni? Anche no. Liberal democratico di vocazione anglosassone, dalla Margherita al Pd non più comunista, l’ha sempre pensata come Renzi, come Walter Veltroni. Ma ha preso atto che le regole erano cambiate. O erano tornate, dopo venticinque anni, alla casella di partenza. Nell’epoca del neo-parlamentarismo, al posto di comando ci vuole uno che sappia praticare l’arte della mediazione. Governare oggi per preparare il terreno a ciò che potrebbe capitare domani. Che un cambio di stile ci sia stato, è certo. Che un cambio di grammatica politica sia stato introdotto, con dosi omeopatiche ma insistite – niente strappi come quando arrivò “la serietà al governo”, e gli italiani fecero finta di crederci un paio di settimane, poi iniziarono a digrignare i denti – è fuori dubbio. Divergono semmai le interpretazioni: svolta duratura, oppure semplice intermezzo di fine legislatura, in attesa del diluvio populista o di un nuovo salvatore della patria. Il dubbio è sottile: Paolo Gentiloni è l’uomo dell’anno, o semplicemente è stato l’anno di Paolo Gentiloni?
Liberal democratico di vocazione anglosassone, dalla Margherita al Pd non più comunista, l'ha sempre pensata come Renzi, come Veltroni. Ma ha preso atto che nell'epoca
del neo-parlamentarismo, al posto
di comando ci vuole uno che sappia praticare l'arte della mediazione
Sorvolandolo con il drone di Paolo Gentiloni, questo strano anno iniziato in anticipo e finito prima verrebbe da dire che è stato un anno di sole quieto. Ma The Year of the Quiet Sun è soltanto il titolo di un vecchio romanzo distopico, fantascienza apocalittica, scritto da Wilson Tucker. Non roba per il palato fine del premier, ma la storia è suggestiva, se ci fate caso: uno studioso di statistica, esperto pure di studi biblici, viene mandato nel futuro, con una macchina del tempo, per vedere se le previsioni politiche e sociali elaborate in un momento di grande casino (guerre in Oriente, scontri razziali e altra attualità) abbiamo prodotto qualcosa di buono. In fondo anche Paolo Gentiloni è stato scelto, un po’ dal Caso e un po’ dalla Necessità, e molto da Mattarella, per provare a scoprire quel che sarà l’Italia tra qualche mese, o tra qualche anno. Un’Italia forse più ottimista, uscita dai guai economici e salvata dall’invasione, e forse con un po’ meno di casino politico. Imprese da romanzo, roba da Uomo dell’Anno.
La verità è che non è stato un anno esattamente quieto. Di quieto, forse, c’è stato soltanto lui. Per indole e puntiglio. Ricapitolando. Il primo vero atto di governo, prima ancora di Natale, di Paolo Gentiloni – convinto esponente di una sinistra liberale e aperta al mercato, gli va dato atto – fu di nazionalizzare la banca dei comunisti. “Una giornata importante, di svolta, di rassicurazione”, disse. Per necessità e per gusto del paradosso. Il 2017 iniziò con un viaggio a Parigi e una settimana di ricovero al Gemelli, angioplastica. Emergenza gestita senza panico, a parte forse per i suoi più stretti collaboratori appena sbarcati a Palazzo Chigi. Il 18 gennaio il nuovo terremoto nel Centro Italia, poi la tragedia di Rigopiano. Il 20 gennaio alla Casa Bianca si era insediato Donald Trump. A maggio Macron sembrava aver scacciato l’incubo populista dall’Europa, ma a giugno Theresa May si inventa le urne anticipate, prende una tranvata, e la sinistra europea che tanto piace a Gentiloni si trova con il Labour di Jeremy Corbyn come unico modello (quasi) vincente. Un brutto affare. In settembre le elezioni tedesche vanno così così, per Angela Merkel, il vero leader europeo di riferimento del premier. Ancora stanno senza governo. Altro brutto affare. A ottobre il referendum della Catalogna, nel frattempo Kim iniziava a fare il diavolo a quattro. Intanto in Italia a luglio la crisi dell’immigrazione era tanto grave che Marco Minniti parlò di rischio tracollo. Dal Mediterraneo guai, e da Oltralpe la mezza guerra di conquista francese: Mediaset-Bolloré, il putsch di Macron su Fincantieri. Nel mondo è l’anno delle fake news, in Italia quello dello scontro sui vaccini. La gestione della crisi libica. Infine il caso Bankitalia: l’unico scontro vero, plateale, con Matteo Renzi. A Paolo Gentiloni, uomo leale, di lunghe fedeltà, è costato come una ferita di guerra.
Non è stato esattamente un anno di sole quieto. quello iniziato il 4 dicembre, con la morte in culla della Terza Repubblica e l’inizio di un’involuzione del Partito democratico che né le nuove primarie stravinte da Renzi, né il generoso colpo di reni di Avanti!, il libro a cuore aperto del segretario fiorentino, sono riuscite a fermare. C’è stata la scissione, si sono ritrovati Liberi e Uguali ma anche pochini, ma per il Pd (dunque per il governo) l’andazzo elettorale amministrativo e dei sondaggi sono quel che sappiamo. Poi il Rosatellum, e parce sepulto al maggioritario e al premier indicato direttamente dagli elettori. Mentre tutto intorno i tarantolati si dannano per una leadership che conta ormai un fico secco, l’unico a dar mostra di aver capito, di non essere interessato, è proprio lui. L’uomo che si presentò con la cravatta viola, col suo bagaglio di esperienza da politico professionale dopo un paio di decenni dominati dagli uomini nuovi. E’ stato l’anno di Paolo Gentiloni? O Paolo Gentiloni è l’uomo dell’anno? Se avessimo una copertina come Time, sarebbe sua. Non avendola, proviamo con le parole.
Nel mondo è l'anno delle fake news, in Italia quello dello scontro
sui vaccini. La gestione della crisi libica. Infine il caso Bankitalia: l'unico scontro vero, plateale, con Matteo Renzi. A Paolo Gentiloni, uomo leale, di lunghe fedeltà, è costato come una ferita di guerra
Le poche parole dell’uomo di poche parole. Per avere la prima apparizione televisiva bisogna aspettare marzo. E forse c’è la solita ironia, il solito giocare sullo stereotipo del politico che viene da un’altra epoca nella scelta di andare da Pippo Baudo, la Rai democristiana della Prima Repubblica, a “Domenica In”, l’essenza distillata del nazional-popolare. Poi un’altra volta da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, il nazional-popolare della Seconda Repubblica, ma erano passati otto mesi. Il suo account Twitter è un sepolcro raramente sporcato (meno di duecento tweet in quasi dodici mesi), su Facebook ci sono solo i video ufficiali, niente newsletter né programmi di fidelizzazione per follower ansiosi. “Italy first”, rispose in aprile alla stampa straniera che gli chiedeva una precedenza per le sue dichiarazioni. Mercoledì scorso ha parlato al Financial Times, di Brexit. Prima del viaggio a Delhi un’intervista, quasi esotica, all’Economic Time of India. Un’altra al Washington Post, qualche concessione alle televisioni, la Fox, i telegiornali italiani. E’ andato all’Auditorium di Roma alla presentazione di “Quando”, il romanzo di Walter Veltroni, ma era quasi un atto dovuto. Una volta l’hanno fatto collegare da Palazzo Chigi con l’astronauta Paolo Nespoli, ma faceva molto Ratzinger quando lo costringevano a presentare le encicliche su Facebook. Qualche settimana fa è andato alla Lamborghini, un gioiellino industriale rilanciato da un’intesa virtuosa pubblico-privato, l’Italia che sa fare che gli piace. C’era la presentazione di un nuovo Suv, come se l’avessero portato a un rave party, se l’è cavata con un una battuta d’altri tempi: “E’ una storia che coinvolge tutti: da ragazzo guidavo una 500 ma tra le mie fantasie c’era la Miura”.
Anche le dichiarazioni a margine di eventi, o le conferenze stampa ufficiali, sono sempre parche di parole, mai un’aggiunta polemica, a braccio. Non parla quasi mai a braccio, anche quando parla a braccio. Si è studiato prima il dossier, si è preparato su quello che è essenziale dire, ha tolto il resto. Impegni mondani? “Sarà uscito a cena tre volte”, raccontano. Passa tutto il tempo che può con sua moglie, Emanuela Mauro, architetto, sposata nel 1988. Più invisibile di lui.
E’ un cambiamento solo di stile? No, è una strategia studiata. Ha fatto tesoro di quello che è, come figura e come portamento, s’è calato nella parte di un presidente del Consiglio a libertà di manovra limitata, e semmai ha accentuato queste caratteristiche. Chi lo conosce, chi lo segue da vicino, testimonia che non è persona fredda (Paolo il freddo), da tenere le distanze. Ha il suo italiano forbito, quando va in giro non si butta in mezzo alla folla, le passeggiate di Berlusconi con o senza la Pascale, i corpo a corpo di Renzi con i fan non sono cosa sua. Ma si ferma a salutare, chiacchiera (spesso con i bambini) cede volentieri all’espressione in romanesco, che è una caratteristica dei politici romani veraci come lui, anche quando vengono da famiglie importanti e da buoni studi, per non perdere il contatto con la realtà. O anche con se stessi. E così, passin passino, è arrivato alla fine di un anno vissuto pacatamente, amministrando ad arte la sua incapacità di essere empatico o peggio simpatico, ad avere una classifica di popolarità eccellente. Sopra a Renzi, ma non solo a lui. Che nell’Italia rancorosa è una cosa rara per un presidente del Consiglio in carica. Un recente sondaggio di Index Research confermava che la maggioranza degli elettori di centrosinistra lo vorrebbe come prossimo premier (17 per cento) davanti a Pietro Grasso (16 per cento) e a Renzi (14 per cento). Il reincarico è la nuova parola magica. Il pontiere, il professionista affidabile, il secchione sempre preparato, la fiducia incondizionata di Mattarella e dei “suoi” ministri sono le poche cose che si dicono sempre di lui. Sempre le stesse.
Sarebbe stato un buon allenatore. Ha dato spazio ai suoi ministri,
non solo a Minniti e Padoan,
ma anche a Calenda, ad esempio
sui dossier francesi, su Ilva.
A Lorenzin sui vaccini. Eppure
ci sono state poche fughe in avanti. Le incomprensioni sempre gestite all'interno, con strategia e calma
Poi ci sono anche i passi indietro, ovviamente. L’abolizione dei voucher per evitare il referendum abrogativo promosso dalla Cgil la presentò come una scelta per “un mercato del lavoro moderno e all’altezza”. Quando nominò Valeria Fedeli, sindacalista rossa di lungo corso, ministro dell’Istruzione, molti restarono stupiti, e non capirono la scelta. Che in realtà aveva la sua logica, ma una logica da passo indietro, come poi hanno dimostrato i fatti. La riforma della Buona scuola, ancora in corso d’opera, aveva lasciato aperto un fronte sanguinoso, in chiave sociale e di debito pubblico: un esercito di precari ufficialmente da abbandonare al loro destino ma realisticamente da assorbire, e un mare di possibili ricorsi in grado di arenare qualsiasi concorso. Chi meglio di una sindacalista della Cgil poteva mettersi a trattare, con l’esercito dei professori incazzati? La qualità, e il futuro, saranno per il prossimo giro. E’ andata così anche per lo ius soli, in fin dei conti. Un provvedimento che Gentiloni avrebbe sinceramente voluto, ma che sarebbe costato troppo sangue politico, troppa divisione sociale, affrontato adesso. Ma sono passi indietro che non si spiegano con la debolezza o il cinismo politico dell’uomo, si spiegano con la consapevolezza del politico, eroe della Necessità in un sistema completamente cambiato, e in cui non è più possibile imporre alcunché, riforme audaci o scommesse per il futuro. Anche se a conti fatti tutto questo – come riflette Michele Salvati, economista riformista che alla scommessa del nuovo Pd e delle riforme sociali ha molto creduto e crede – non ha rafforzato di una virgola né il governo, né Gentiloni, né il Partito democratico sul fronte sinistro del Parlamento, o della nazione.
Poi ci sono anche i passi indietro, come l'abolizione dei voucher.
Sul referendum del 4 dicembre,
sul sistema maggioritario,
sulla coabitazione tra riforme sociali e mercati la pensava (la pensa) come Renzi e come i riformisti dentro e fuori dal Pd. Ma è cambiato il mondo, e lui è un empirista
Per il futuro – siccome anche se non lo dà a vedere è un uomo di fantasia – si possono invece immaginare un paio di cose che senz’altro gli piacerebbe fare, se ne avrà il tempo e la possibilità. Una è occuparsi dell’agenda del Mediterraneo per i prossimi dieci anni. “Nessuno può pretendere di essere protagonista di una nuova sfera di influenza”, ha detto di recente, Ma “l’Italia chiede meno ambizione e più responsabilità. Non ci sono più garanti esterni ma serve una responsabilità multilaterale, lo dico a noi stessi europei. Bisogna lavorare insieme. Dobbiamo collaborare per costruire un nuovo ordine mediterraneo”. E’ un’area che ama, che conosce, che ha studiato. Rimettere l’Italia al centro del suo mare, è un suo antico cruccio. L’altro è il Meridione. La scorsa settimana è stato a Napoli, a un convegno intitolato “Avere vent’anni al Sud”, organizzato dal Mattino. Ha detto cose non casuali, non banali, come sempre. Ma chi ne conosce le idee, sa che non è incline a quelle visioni super riformiste, anche di sinistra, per le quali il Sud va trattato come il Nord, e la mano invisibile del mercato farà il resto. No, lui è uno che pensa che il Meridione è un caso speciale, e in modo speciale deve essere trattato. Non la Cassa del Mezzogiorno, no. Ma un suo piano Marshall, potesse, lo metterebbe in campo. E sono, anche queste, buone idee per la sinistra che verrà. E insomma: sarà anche che il 2017 è stato l’anno di Paolo Gentiloni. Noi preferiamo dire che è l’uomo dell’anno, un anno vissuto razionalmente. Paolo Gentiloni potrebbe andare avanti così ancora per un pezzo, e divertirsi sempre come il primo giorno. Peccato per quel fatto testardo, lapalissiano e persino aristotelico: che l’anno è finito, tocca andare a votare.
L'editoriale del direttore