LaPresse/Stefano Cavicchi

I programmi politici vanno in deficit, ma la realtà presenterà il conto

Luciano Capone

Realismo? Tutti i partiti fanno promesse in disavanzo, ma il problema resta il debito. E intanto il Qe va verso la fine

Roma. I messaggi di fine anno dei presidenti della Repubblica sono generalmente caratterizzati da un elenco di problemi che la politica e le istituzioni dovrebbero affrontare, da questioni che dovrebbero risolvere, da valori che dovrebbero difendere e da princìpi che dovrebbero affermare. Nell’asciutto discorso del presidente Sergio Mattarella c’era tutto questo, ma c’era qualcosa in più, una breve ma essenziale indicazione ai partiti sui programmi elettorali, che riguarda più il metodo che il contenuto delle proposte. “L’orizzonte del futuro costituisce il vero oggetto dell’imminente confronto elettorale – ha detto Mattarella –. Il dovere di proposte adeguate, di proposte realistiche e concrete, è fortemente richiesto dalla dimensione dei problemi del nostro paese”.

   

Quella che sembra una banale affermazione di buon senso, indica in realtà il problema principale della campagna elettorale che si è appena aperta dopo lo scioglimento delle Camere. Tutti gli schieramenti politici basano la propria politica economica, e quindi il proprio programma elettorale, sul deficit di bilancio. Naturalmente l’entità del deficit, anche se non quantificato in maniera chiara e trasparente agli elettori, è direttamente collegato alla grandezza delle promesse fiscali e al grado di demagogia e populismo, che non è uguale per tutte le forze politiche. Ma in ogni caso tutti i concorrenti per le lezioni del 4 marzo propongono più spesa pubblica senza aumentare le tasse, oppure meno tasse senza tagliare la spesa pubblica, oppure addirittura meno tasse e più spesa pubblica insieme senza coperture che non siano il rosso di bilancio, l’emissione di nuovo debito pubblico o, in ultima istanza, l’uscita dall’euro per “far gemere il torchio dei biglietti”.

    

Ma mentre il nuovo anno si apre con una campagna elettorale in fuga dalla realtà, con i partiti populisti in testa e quelli riformisti e moderati a rimorchio, la realtà si muove in controtendenza: da gennaio 2018 la Banca centrale europea dimezza il Quantitive easing, riducendo l’acquisto di titoli da 60 a 30 miliardi al mese. Questo vuol dire che le condizioni favorevoli che hanno consentito all’Italia notevoli risparmi sui tassi d’interesse sono destinate a cambiare e che il paese dovrebbe usare questa finestra di crescita economica non per sfondare il bilancio, ma per rimettere a posto i conti pubblici, che restano molto fragili e sicuramente incapaci a tenere in piedi il paese in caso di un nuovo inaspettato choc finanziario.

   

Non è un caso che la Banca centrale europea nel suo ultimo bollettino mensile, alle notizie positive sul rialzo delle stime di crescita del pil dell’eurozona (2,4 per cento nel 2017, al 2,3 per cento nel 2018, all’1,9 per cento nel 2019) e quindi alla possibilità che l’inflazione si avvicini all’obiettivo del 2 per cento, ha evidenziato la lentezza con cui paesi con un elevato debito pubblico, come l’Italia, stiano riducendo il rapporto tra debito pubblico e pil. Se il fatto che il debito italiano sia superiore al 130 per cento del pil è un motivo di preoccupazione per la Bce e l’Eurogruppo, in Italia sembrano invece tutti tranquilli. Non solo nessun partito parla di riduzione o abbattimento del debito pubblico, ma tutti sembrano fare a gara per aumentarlo (senza però dirlo in maniera esplicita agli elettori).

   

Il Movimento cinque stelle propone il reddito di cittadinanza e piani pubblici di investimento, Forza Italia la flat tax al 25 per cento e le pensioni minime da mille euro, la Lega una flat tax ancora più bassa e la cancellazione della legge Fornero, il Partito democratico un aumento del deficit al 2,9 per cento per cinque anni e tutti insieme il rifiuto del fiscal compact, ovvero di quelle regole che dovremmo rispettare per mettere la finanza pubblica a posto e invece vengono viste come un’imposizione degli “tecnocrati di Bruxelles”. Tra l’altro l’accordo sul fiscal compact, che ha rafforzato la disciplina fiscale dei membri dell’Unione, è proprio la premessa che ha consentito nel 2012 il “whatever it takes” di Mario Draghi e la politica monetaria espansiva della Bce che ha consentito una politica fiscale espansiva all’Italia. Tutti i partiti sono convinti che il paese negli ultimi anni abbia vissuto una fase di “austerità”, ma non è esattamente così, perché l’Italia ha usufruito anche di ampi margini di flessibilità. E’ vero che il deficit è in costante ma leggero calo, ma non è il frutto di una politica fiscale restrittiva, bensì della diminuzione degli interessi sul debito pubblico dovuta interamente alla politica monetaria della Bce, in particolare all’acquisto di titoli previsto dal quantitative easing.

   

Le forze politiche che propongono un aumento del deficit a colpi di spesa e tagli tasse, non si rendono conto che nel mutato scenario politico ed economico europeo il deficit potrebbe alzarsi da solo man mano che la risalita dell’inflazione spingerà a una chiusura del Qe. In questo contesto, i programmi elettorali sembrano tutti dei libri dei sogni, con proposte contraddittorie come ad esempio il rifiuto del fiscal compact e l’introduzione degli Eurobond, come se fosse possibile avere l’eurobotte piena e i partner europei ubriachi. E di certo non potrà servire a spaventarli la minaccia dell’uscita dall’euro, anzi, quella li convincerà che i veri ubriachi siamo noi.

    

Per ritornare a un dibattito politico sobrio, sarebbe interessante che le forze politiche che si candidano alla guida del paese rispondessero alla richiesta dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli di fornire tre semplici dati: quale livello di deficit si intende mantenere anno per anno, quale sarà il corrispondente livello di spese e entrate pubbliche e quale sarà il rapporto tra debito pubblico e pil che si intende raggiungere. Non sono complicati, sono quelli che il prossimo governo dovrà inserire nel Def subito dopo le elezioni. Queste tre semplici informazioni sarebbero la migliore risposta al richiamo del presidente Mattarella al dovere di fare proposte “realistiche e concrete”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali