Mario Mori (foto LaPresse)

La Trattativa si affloscia ma gli eredi dell'incubatore del partito delle gogne esistono ancora

Claudio Cerasa
L’Italia da Ingroia a Grillo. L’assoluzione di Mori e l’iceberg del mascariamento a mezzo stampa – di Claudio Cerasa

Sarebbe bello potersi rallegrare e dire che l’assoluzione di Mario Mori è il segno evidente che la giustizia italiana è pasticciata, sì, è lenta, ok, ma comunque, in definitiva, funziona che è una meraviglia, oh yes, e in fondo, vedi il caso Mori, alla fine un processo, pur essendo costruito più sulla base di teoremi che sulla base di prove, non può che finire quasi sempre così: con un’assoluzione. Sarebbe bello poter esultare dicendo che giustizia è fatta, olè, e che ancora una volta il partito del garantismo-uguale-gargarismo (tutto ok Marco?) ha semplicemente avuto torto nel condannare e mascariare e sputtanare un indagato considerato ancora una volta colpevole fino a sentenza definitiva e macchiato a vita da una campagna stampa infamante le cui ferite neanche un’assoluzione potrà mai cancellare. Sarebbe bello limitarsi a commentare tutto questo e passare subito alla pagina successiva, ma la storia del processo a Mario Mori è una vicenda particolare che, in un certo senso, prescinde persino dalla stessa figura di Mori e che ci dice molto delle ragioni per cui, a parte questo giornale, negli ultimi dieci anni sono stati in molti a cavalcare in modo simpaticamente abominevole un processo tonante, quello sulla Trattativa stato-mafia, che perde pezzi giorno dopo giorno e che nei libri di storia verrà ricordato più per il suo lato politico e a volte farsesco che per il suo lato strettamente giudiziario. Non sappiamo ancora se la procura di Palermo mostrerà sul resto dell’impianto della Trattativa stato-mafia la stessa saggezza mostrata due giorni fa su Mori ma sappiamo invece che, come ricordato magistralmente ieri su queste colonne da Giuseppe Sottile, l’intera vicenda ci consegna alcune lezioni che valgono la pena di mettere insieme e che vanno ben al di là della solita polemica su giustizialismo vs. garantismo. Diceva giustamente tempo fa il magistrato Piero Tony sempre su questo giornale che l’inchiesta sulla Trattativa stato-mafia ha offerto spesso l’impressione di avere di fronte a noi alcuni magistrati pronti a muoversi più come giornalisti che come inquirenti, intenzionati a dimostrare una teoria storica più che un reato preciso, senza accorgersi che anche a occhio nudo era evidente che quella che si stava individuando era “un’ipotesi accusatoria visibilmente esile e arzigogolata il cui obiettivo era quello di portare avanti più un processo alla politica governativa degli anni delle stragi che un processo a singoli esponenti politico-istituzionali sospettabili di comportamenti penalmente rilevanti”. Il punto è proprio questo e prescinde anche dal processo in sé e dalla diffidenza della magistratura nei confronti dei Ros (diffidenza legata al fatto che le forze speciali spesso agiscono non di concerto con la magistratura, cosa mai accettata dalle procure, prendendo iniziative per l’appunto speciali, non concordate con i capi delle procure, e portando avanti anche indagini autonome, cosa anch’essa mai accettata dai magistrati politicizzati e dai giornalisti al loro servizio). Anche se in molti oggi fischiettano e fanno finta di nulla, il processo sulla Trattativa stato-mafia, giustamente ritenuto dal professor Giovanni Fiandaca una boiata pazzesca, è stato a lungo l’incubatore di un mostro che oggi si presenta sotto altre forme ma la cui identità è chiara.

 

Un cocktail micidiale fatto di sovrapposizione tra magistratura e politica, protagonismo dei giudici, discrezionalità del pm, falsa obbligatorietà dell’azione penale, uso delle intercettazioni come bignè per i giornalisti, pataccari usati come icone antimafia, teoremi spacciati per prove, giornalisti trasformatisi in camerieri delle procure.

 

Oggi si fischietta e si fa finta di nulla ma bisogna ricordarseli quei mesi del 2011 e del 2012 quando uno schieramento possente ha soffiato forte nel palloncino della Trattativa per provare a far esplodere un sistema politico, per infangare Giorgio Napolitano e per portare alla sbarra del processo morale, attraverso un’inchiesta condotta da un pm che poi si sarebbe candidato alle elezioni, un’intera classe dirigente. “Napolitano – disse in quei giorni, sommerso dai fischi, l’ex giudice istruttore del pool di Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello Finuoli – è finito bersaglio di una compagnia di giro composta da professionisti dello spettacolo, del mondo editoriale e anche di magistrati che pensano di essere depositari ed eredi esclusivi di una tragica e nello stesso tempo esaltante stagione della vita della nostra Repubblica”. Oggi i commenti sul caso Mori finiscono a pagina 27 (tutto bene Marco?) e vengono trattati con sufficienza dai giornali che hanno ingrossato la pancia del moralismo. Ma nella storia di Mori e nella storia della Trattativa ci sono tutti gli ingredienti chiave della gogna, del processo mediatico e delle inchieste che diventano un grande contenitore all’interno del quale, chi vuole, può mettere dentro di tutto: teoremi, indagati, impressioni, sensazioni, suggestioni, a volte, se capita, anche reati. Vedremo come andrà a finire il processo più grande ma il caso Mori, con il codazzo di magistrati e giornalisti al servizio della stessa che spacciano vociferazioni per sentenze definitive, è la punta di un iceberg che in molti accettano di vedere a fasi alterne e di cui ci accorgiamo solo quando un magistrato la spara grossa (Morosini, che incidentalmente prima di arrivare al Csm ha avuto un ruolo come giudice nel processo sulla Trattativa). L’iceberg in questione coincide con l’orrore della gogna mediatica, con la giustizia utilizzata per fare con le armi delle procure quello che non riesce a fare la politica e con quel pezzo di paese, di destra e di sinistra, che si tuffa sui teoremi dei magistrati quando gli fanno comodo ma senza capire, come direbbe il vecchio saggio, che la somma di mezzo indizio più mezzo indizio non fa uno ma fa zero. L’Italia della Trattativa sta perdendo pezzi, e ne siamo lieti, però l’Italia che ha fatto del modello della Trattativa un esempio giusto per governare l’Italia non si ferma a Ingroia ma arriva fino ai nostri giorni. E’ l’Italia dello sputazzo, del mascariamento, del fango, della gogna, dell’abuso del carcere preventivo, l’Italia detestata da Pannella e oggi incarnata magnificamente dal compagno Beppe Grillo. E per capire che quell’Italia esiste forse sarebbe il caso di impararlo una volta per tutte senza aspettare il prossimo iceberg e il prossimo mascariamento a mezzo stampa.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.