Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Scoop: Mattarella alla Trattativa

Giuseppe Sottile
Dopo Scalfaro, Ciampi e Napolitano, anche l’attuale capo dello Stato sarà chiamato a Palermo. Il viaggio potrebbe aprire al Colle squarci inediti sul ruolo di chi ha impupato contro ogni logica questo processo.

Sarà pure un capriccio del destino, ma gira e rigira con questa benedettissima Trattativa si finisce sempre sul colle più alto di Roma: al Quirinale. Non bastavano i richiami a Oscar Luigi Scalfaro e alle presunte trame che il presidente del “Non ci sto”, avrebbe intessuto, nei giorni immediatamente successivi alle stragi di Palermo, per alleviare i rigori del carcere duro previsto per i boss della mafia. Non bastava la spocchia giudiziaria con la quale un pubblico ministero aveva ritenuto di potere dare in pasto all’opinione pubblica le telefonate riservate di Giorgio Napolitano. E non bastava nemmeno il richiamo, impudente e petulante, al fantasma di Carlo Azeglio Ciampi: avevano programmato di interrogarlo quando era già moribondo; non ci sono evidentemente riusciti e l’altro ieri, per rifarsi, hanno deciso di acquisire agli atti le sue agende.

 

Non bastava tutto questo. Per completare la galleria dei Capi di Stato chiamati a deporre, ecco la richiesta di citare come testimone anche il presidente in carica, Sergio Mattarella. Il suo nome compare nella lista dei testimoni presentata dai difensori di Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, che nel mastodontico processo di Palermo è imputato non di avere stipulato un qualche patto scellerato con i mafiosi ma semplicemente di falsa testimonianza: secondo l’accusa sapeva della trattativa tra lo Stato e i boss ma non vuole ammetterlo. I difensori sostengono invece che lui è un uomo integerrimo che mai avrebbe accettato un compromesso così riprovevole. E per dimostrarlo vogliono che la Corte di Assise ascolti Sergio Mattarella che, al tempo in cui Mancino fu nominato ministro dell’Interno, era vicesegretario della Dc e può quindi smentire, da testimone, la tesi sostenuta dall’accusa secondo la quale l’avvicendamento al Viminale tra Mancino e Vincenzo Scotti non scattò per ragioni “strettamente politiche” ma per assecondare l’ipotesi, già accettata da Scalfaro, di un alleggerimento del regime carcerario previsto 41 bis e mantenere così l’impegno preso con i boss.

 

Quasi certamente la richiesta sarà accolta. Il presidente del collegio giudicante, Alfredo Montalto, non ha mai opposto un rifiuto. Basti pensare che il processo dura da oltre tre anni e che in tutto questo tempo la Corte non ha fatto altro che ascoltare i testimoni citati a centinaia soprattutto dall’accusa: personalità di grande prestigio e autorevolezza, come Giorgio Napolitano, che nel frattempo ha lasciato il Quirinale, o come l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro; ma anche figure molto discutibili come quei pentiti di terz’ordine, truffaldi e cialtroneschi, che non sanno nulla di niente ma si guadagnano la giornata inventando oggi una scemenza e domani una scempiaggine, magari di segno opposto. La Corte, oltre a non avere preclusioni verso nessuno, non sembra dominata nemmeno dalla voglia di fare in fretta.

 

Per completare l’esame e il contro esame di Massimo Ciancimino, sono stati necessari cinque mesi; e poiché, alla fine della giostra, è risultato difficile per chiunque separare le verità dalle patacche, i rappresentanti dell’accusa hanno chiesto al presidente Montalto di dedicare tre o quattro udienze ai ricordi e alle opinioni di alcuni giornalisti che avevano avuto modo di frequentare il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo nei giorni felici, quando il giovanotto, prima di essere sorpreso a contraffare i documenti del padre, veniva ancora considerato, secondo la definizione del procuratore aggiunto Antonio Ingroia, una “icona dell’antimafia”.

 

La convocazione di Sergio Mattarella, dunque, si può già dare per scontata. La procedura prevede che la Corte, con il lungo codazzo di avvocati e cancellieri, dovrà trasferirsi per quella udienza al Quirinale, ma non è escluso che il Capo dello Stato, con l’umiltà che generalmente distingue il suo operato, possa decidere autonomamente di accantonare le prerogative costituzionali e di recarsi nell’aula bunker di Palermo. Sarebbe un’occasione irripetibile e non solo per le cose che potrà dire a favore di Nicola Mancino. Anche per le riflessioni che il viaggio dentro questo processo gli potrà suggerire. Mattarella, lo sanno pure i bambinetti dell’asilo, in quanto presidente della Repubblica è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. E come tale avrebbe anche il diritto, oltre al dovere, di chiedersi se attorno a questo processo non ci sia stato per caso qualcosa di anomalo: per esempio un entusiasmo di troppo o un passaggio poco opportuno o una sovrapposizione di interessi o interpretazione della legge così accomodante da apparire come una forzatura.

 

Certo, per avere notizie su tutto ciò che è stato costruito attorno alla cosiddetta Trattativa, al presidente Mattarella basterebbe interpellare Piergiorgio Morosini, il magistrato che oggi siede accanto a lui nel Csm e che, prima di essere eletto a Palazzo dei Marescialli, fu il Gip che avallò le tesi della procura e rinviò a giudizio i dodici imputati, dall’ex generale dei carabinieri Mario Mori a Totò Riina, il sanguinario boss dei corleonesi catturato proprio da Mori nel gennaio del 1993. Ma Morosini potrebbe solo parlare dei faldoni che furono sottopposti alla sua attenzione; oppure potrebbe disquisire sul fatto che, non essendo previsto il reato di trattativa, il processo fu acrobaticamente e temerariamente appeso a un articolo del codice penale, il 338 per l’esattezza, che prevede una indefinita “violenza o minaccia” a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Roba da azzeccagarbugli.

 

Il viaggio a Palermo, invece, potrebbe aprire a Mattarella squarci inediti. Per esempio gli consentirebbe di mettere a confronto la grancassa mediatica che accompagnò le battute finali dell’inchiesta – eravamo alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 e il procuratore Ingroia, che si era intestato il merito di avere sventrato muri di silenzi e complicità, si preparava a scendere in campo addirittura come candidato premier – e la noia che avvolge ormai tutte le udienze celebrate, si fa per dire, dalla Corte nell’assoluta indifferenza del pubblico e dei giornali. Per carità, la noia può essere un fatto umorale. Ma può anche discendere dalla consapevolezza che il processo creato da Ingroia – certamente in ossequio all’obbligatorietà dell’azione penale e non in base al ritorno di immagine che un’impresa così clamorosa poteva procurargli – sembra avviarsi giorno dopo giorno verso un inesorabile destino: o l’assoluzione, come quella ottenuta, con il rito abbreviato, dall’ex ministro democristiano Calogero Mannino, o la prescrizione. I tempi sono talmente lunghi e stiracchiati da non consentire nemmeno l’ipotesi di una soluzione diversa. Stiamo toccando il quarto anno e siamo ancora inchiodati al primo grado. Se non ci saranno colpi di scena occorrerà almeno un altro anno per avere la sentenza. Poi ci sarà l’Appello e dopo l’Appello sarà il turno della Cassazione. Vogliamo fare una previsione, presidente Mattarella?

 

Lei, che è uomo di legge e uomo di Stato, sa bene che questo gigantesco castello di carte, sul quale hanno trovato nido tanti angeli vendicatori, sarà inghiottito dal nulla. E sa altrettanto bene che nessuno, al punto in cui siamo, potrà recriminare supponenze e prepotenze, miserie e arroganze: la giustizia deve sempre fare il suo corso, anche quando il corso è parecchio costoso e accidentato. Ma lei, presidente Mattarella, non perda l’occasione di varcare la soglia dell’aula bunker di Palermo e, in una pausa della testimonianza, abbia la benevolenza di guardare negli occhi alcuni di quegli investigatori – come il generale Mori o il generale Antonio Subranni – che negli anni maledetti delle stragi hanno dato il sangue per fronteggiare l’avanzata della violenza mafiosa e oggi si ritrovano sul banco degli imputati fianco a fianco con gli stessi boss che avevano ammanettato. Li guardi negli occhi, presidente, e cerchi di immaginare che cosa pensano di questo processo e dei magistrati che lo hanno impupato e propagandato. Pensi a Paradis de Moncrif che nella Francia della gaieté ebbe la felice idea di dare alle stampe un libretto rivoluzionario: la storia dei gatti vista dai topi. I salotti lo odiarono, i poveri cristi lo venerarono.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.