Ingroia svela i danni delle intercettazioni

Massimo Bordin
Non capisco perché i pm dell’antimafia di Palermo, anzi del “pool stato-mafia” come li chiama il Fatto, si siano risentiti con il ministro Orlando per la nuova ispezione in procura a proposito delle intercettazioni al presidente Napolitano.

Non capisco perché i pm dell’antimafia di Palermo, anzi del “pool stato-mafia” come li chiama il Fatto, si siano risentiti con il ministro Orlando per la nuova ispezione in procura a proposito delle intercettazioni al presidente Napolitano. Il trambusto, inevitabile e peraltro molto limitato, ha un altro responsabile, il solito. Se il dottore Ingroia avesse evitato di dare interviste nelle quali ammiccava alla possibilità di un suo libro dove l’intercettazione avrebbe potuto essere svelata sfidando una sentenza della Consulta, nessuna ispezione sarebbe partita. Per di più attraverso la tecnica collaudata del “qui lo dico e qui lo nego” l’ex pm finisce, come al solito senza volerlo, per svelare come la tecnica investigativa delle intercettazioni, usata impropriamente, possa creare danni anche senza essere trascritta sui giornali.

 

Che le parole carpite a Napolitano non abbiano alcun rapporto col processo trattativa è cosa pacifica. L’ha detto più volte lo stesso Ingroia quando era pm. Ma non basta. Anzi apre grandi prospettive di sfruttamento del caso. E allora, se non della famosa trattativa, di cosa ha parlato Napolitano? Ci si può riferire, anzi ammiccare, a tutto. La superficiale sconclusionatezza del dottore Ingroia copre una ancestrale furbizia inquisitoria, quella che spinge l’inquisito all’obbligo di affrontare la cosiddetta prova diabolica. Solo che qui non ci sarà un tribunale, ma la speranza di un best seller. Del resto certi processi si celebrano soprattutto nelle edicole e in libreria. Con relativi diritti d’autore.