Inaugurazione dell'anno giudiziario (foto LaPresse)

La linea Sottile

Un'intercettazione tira l'altra

Giuseppe Sottile
Uno strumento nato per sondare gli anfratti più cupi della criminalità ha finito per trasformare il vocabolario della civiltà giuridica. Criminalizza la banalità e agevola non poche carriere extragiudiziarie.

Apologo. Arrivava quando il cadavere era ancora caldo e sentenziava a bruciapelo: “Un cornuto in meno”. Il colonnello Giuseppe Russo, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri, era un investigatore che credeva nell’onnipotenza della legge e, soprattutto, dell’Arma. Era convinto che bastassero quattro marescialli infiltrati tra la manovalanza delle borgate mafiose – Ciaculli, Uditore, Acquasanta – per sapere tutto di tutti. “Ho la mappa dei morti e dei vivi, e anche dei vivi che saranno presto morti; morti ammazzati, naturalmente”. Così diceva, indicando col dito il proprio orecchio. Come se quell’orecchio fosse il terminale di chissà quale rete di spionaggio, di chissà quali centrali d’ascolto. Non c’era delitto che non fosse frutto di un regolamento di conti, non c’era morto ammazzato che non meritasse di essere ammazzato, non c’era vittima che lui non iscrivesse d’ufficio nel casellario della malavita: “Un cornuto in meno”, appunto. “Colonnello, ma lei lo conosceva?”. “Se non l’avessero ammazzato, tra qualche giorno l’avremmo certamente arrestato”. E nell’assemblare i pezzi della sua escatologia mafiosa, assumeva un aspetto altero, incannucciato, che tanto somigliava alla messa in posa per una fotografia. Ricordate quel poliziotto di Graham Greene e il suo inno spocchioso all’onnipotenza? “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare”, scandiva a beneficio dei presenti e degli assenti. Il 20 agosto del 1977, il colonnello Russo fu ucciso. Dalla mafia. I killer lo sorpresero nel bosco della Ficuzza, dove ogni anno andava in vacanza con la moglie. Fu colpito alle spalle. Due colpi di lupara, sparati da un fucile a canne mozze. Cadde fulminato e non ebbe modo di vedere in faccia i suoi assassini. Ma chi poteva dubitare? Di sicuro lo avevano ammazzato un paio di cornuti che lui, da lì a qualche giorno, avrebbe “certamente arrestato”.

 

Svolgimento. A differenza del colonnello Russo, gli investigatori di oggi non hanno da affinare l’orecchio per scoprire fatti e misfatti di un mafioso o di una cosca o di chi piace a loro: possono contare su mille e mille orecchi elettronici bene incolonnati nei sotterranei delle procure e impiantati lì, sotto l’alta direzione dei magistrati, per captare mille e mille conversazioni in un solo giorno, per catturare parole innocenti e parole scellerate, per fissare su nastro banalità e pettegolezzi, per preparare quando sarà il momento chissà quale dossier e chissà quali sputtanamenti. E’ lo strumento, micidiale, dell’intercettazione telefonica, bellezza. Senza il quale nessun pubblico ministero avrebbe oggi la possibilità di chiudere un’inchiesta che conta e di piazzare la propria immagine ai più alti livelli della popolarità e del consenso mediatico. Perché un’intercettazione è la più subdola incursione nella vita privata di un uomo e se proprio non riesce a svelare la prova provata di un reato, certamente alzerà il velo su una debolezza affettiva, su un rancore familiare, su una maldicenza politica, su una indecenza comportamentale, su un tradimento bastardo, su un apprezzamento azzardato. Insomma, ti uscirà sempre e comunque dalla bocca una parola che non avresti mai dovuto pronunciare. E quando quella parola finirà su carta e diventerà “atto giudiziario” per te non ci sarà più scampo. Se non ti marchieranno a fuoco i procuratori, con un avviso di garanzia o un avviso di chiusura indagine o un’altra diavoleria giudiziaria che ti iscriva d’ufficio alla categoria dei delinquenti, ci penserà il giornalista amico del magistrato a bollarti come fedifrago o puttaniere, tanto per rimanere nel girone delle infamie private. E se sarai così ingenuo da addentrarti nei corridoi del Palazzo di giustizia nella speranza che qualcuno ti spieghi come mai un uomo, che formalmente non è accusato di nulla, possa finire nel tritacarne del sospetto e della maldicenza, preparati a ricevere una risposta che difficilmente rafforzerà la tua fiducia nello stato di diritto: ti diranno, per esempio, che la tua conversazione, anche se penalmente irrilevante, è finita nel fascicolo perché il pubblico ministero aveva l’esigenza di descrivere al meglio il contesto nel quale è maturata l’inchiesta.

 


Il Palazzo di giustizia (foto LaPresse)


 

E tu non potrai replicare nulla. Anzi. Se sei un imprenditore, da ora in poi dovrai stare attento a dove metti i piedi perché il tuo nome, finito malamente sui giornali, puzza di scandalo e questo non sarà un buon segno né per i fornitori né tanto meno per le banche. Se sei un esponente politico, il quadro che avrai davanti sarà ancora più nero e dovrai prepararti al peggio: nel caso in cui tu ricoprissi un incarico ti chiederanno immediatamente le dimissioni; se invece nutri ancora una qualche ambizione, sappi che la gogna alla quale ti hanno sottoposto ha ammorbato ogni tua aspettativa. Politicamente parlando, ti hanno fatto fuori: da ora in poi i tuoi nemici gongoleranno mentre i tuoi amici puntualmente ti eviteranno. Come si fa con un appestato.

 

Sarà pure triste ammetterlo, ma l’intercettazione telefonica ha cambiato il vocabolario della civiltà giuridica. Perché, oltre ad avere incastrato molti criminali, motivo per cui se n’è fatto e se ne fa tanto uso, è riuscita anche nel miracolo di criminalizzare le banalità. “Tu mi tratti come una sguattera del Guatemala”: una moglie può dirlo al marito mille volte e non succede nulla, affari loro; ma se quello sfogo o quel risentimento finisce in una carta giudiziaria e poi sui giornali l’effetto che fa è tutta un’altra musica. Non solo. Il ricorso sempre più smodato all’intercettazione ha compiuto anche un secondo miracolo. E’ riuscito, come hanno potuto sperimentare politici e imprenditori, ad assegnare un castigo a tanti innocenti, eliminati dal gioco – che poi era il loro mondo, la loro vita – quasi sempre per “una superiore ragione di giustizia” ma spesso anche per il capriccio o la leggerezza di un magistrato. Chi li risarcirà? La risposta è scontata: nessuno.

 

Ma forse questa – che pure tocca la dignità di persone finite senza colpa negli inferi blandi della mortificazione e della dimenticanza – non è ancora la domanda da porgere a chi ha il potere di disporre un’intercettazione o a chi avrebbe teoricamente, molto teoricamente, il potere di regolamentare per legge l’uso di questo delicatissimo strumento d’indagine. La domanda irriverente da porre è un’altra e riguarda il fine ultimo di una intercettazione. I magistrati – tutti inclusi e nessuno escluso: la puntualizzazione è doverosa – inizialmente mettono un telefono sotto controllo al solo scopo, come prevede il codice, di scoprire scelleratezze di particolare gravità, reati cioè per i quali è prevista una pena superiore ai cinque anni: l’abuso d’ufficio, per esempio, non lo consentirebbe ma siccome l’indiziato finisce per chiacchierare con più di cinque persone, il pm ipotizza l’associazione a delinquere e tira avanti lo stesso. Se poi però si va a guardare dentro certi corposissimi dossier si scopre che tonnellate e tonnellate di intercettazioni non hanno raggiunto l’obiettivo primario, quello cioè di fornire la prova provata del reato per cui sono state disposte; in compenso però hanno dato la possibilità ai magistrati di avere tanto e tale materiale da non sapere addirittura da dove cominciare. Tra quei brogliacci c’è tutto il bene e il male del mondo: c’è l’argomento scabroso, c’è il personaggio che mai ti saresti aspettato di trovare, c’è la frase tagliente che può incastrare il sindaco o il ministro, c’è l’ammiccamento obliquo che può mascariare Palazzo Chigi, c’è la buccia di banana sulla quale può scivolare l’eroe antimafia, c’è l’allusione che può rivelare patti scellerati tra un politico e un imprenditore, c’è il parlare a mezza bocca tra il funzionario e l’ipotetico corruttore. Tra quei brogliacci c’è, insomma, un reliquario di nefandezze, vario e variegato; e al magistrato, comodamente seduto sulla riva del fiume, non resta che sfogliare la margherita: questo sì, questo no; questo lo mangio oggi, questo lo mangio domani. Un  gioco a nascondere e a svelare dal quale parte, come capita quasi sempre, una nuova giostra: magari più esaltante, magari più promettente. Non per la carriera del pm che indaga, ci mancherebbe altro. Ma per la Giustizia,  quella scritta con una maiuscola così maiuscola da meritare il rango di divinità.

 

Ricordate le intercettazioni disposte tra il 2010 e il 2012, anni in cui la procura di Palermo sembrava infatuata dalla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni alti esponenti dello stato? Tra i telefoni finiti sotto controllo ci fu quello di Nicola Mancino, ex ministro democristiano dell’Interno, poi presidente del Senato e poi vicepresidente del Csm. Il quale, atterrito dal pericolo di finire in una trappola giudiziaria per un suo contrasto con Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia ai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino, bussava alle porte dei più importanti palazzi del potere alla ricerca di una chiarificazione o di una solidarietà. Era inevitabile che, prima o poi, bussasse pure alla porta del Quirinale. Ed era altrettanto inevitabile che Giorgio Napolitano, anche per una sorta di galateo istituzionale, scambiasse con lui quattro innocenti parole.

 


L'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (foto LaPresse)


 

Apriti cielo. I magistrati palermitani si trovarono tra le mani – loro dicono: con sorpresa – la registrazione di quattro conversazioni telefoniche nel corso delle quali il Capo dello stato non faceva altro che mostrare la propria vicinanza a Mancino. E tentarono in tutti i modi di farle entrare nel processo, e dunque di renderle pubbliche nonostante il parere contrario di Napolitano il quale giustamente invocava per sé quella immunità che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica. Ne nacque, come si ricorderà, un conflitto inutile oltre che dannoso. Che tuttavia consentì al pm Antonio Ingroia, maestro compositore e concertatore dell’inchiesta sulla Trattativa, di indossare le vesti dell’eroe duro e puro che, pur di affermare le sublimi ragioni della verità, non aveva esitato a sfidare il più potente tra i potenti. Una contrapposizione certamente vantaggiosa per l’inchiesta: le assegnava un’intensità drammaturgica che nessun giudice avrebbe potuto successivamente ignorare. Ma utilissima anche per il magistrato che da quel momento, proprio perché aveva osato attaccare il Capo dello stato, diventava un intoccabile, al pari di un Reverendissimo principe dell’Inquisizione, e in quanto tale inseguito e corteggiato dai giornali e dai talk-show.

 

Bene. Sappiamo come è finita. Napolitano si appellò alla Consulta e ottenne la distruzione delle bobine. Ingroia, gonfio fino all’inverosimile del successo mediatico ottenuto da quello scontro, formò una propria lista  e si presentò alle elezioni del 2013 come candidato alla guida del paese. Fu un fallimento. Ma questa è un’altra storia. Qui si è voluto solo discorrere di quali e quanti miracoli possano sprigionarsi dal controllo dei telefoni altrui. Nata per esplorare gli anfratti più cupi degli inferni criminali, l’intercettazione riesce pure ad aprire inimmaginabili sentieri verso il paradiso.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.