Pier Luigi Bersani (foto LaPresse)

La minoranza senza scacchiera

Salvatore Merlo
Può darsi che la questione del Senato elettivo e il conflitto tra maggioranza e minoranza del Pd siano una partita a scacchi d’una sottigliezza e di una lungimiranza degne di Kasparov e Fisher, tutto è possibile.

Roma. Può darsi che la questione del Senato elettivo e il conflitto tra maggioranza e minoranza del Pd siano una partita a scacchi d’una sottigliezza e di una lungimiranza degne di Kasparov e Fisher, tutto è possibile. Ma qui e là si fa largo l’impressione diffusa del cul de sac, del vicolo cieco, dello stallo messicano, come nei film di Quentin Tarantino. Dice per esempio Miguel Gotor, senatore intelligente, misurato, lui che della sinistra di Pier Luigi Bersani è l’architetto: “Siamo disponibili a qualsiasi tipo di accordo, anche alla micro-chirurgia proposta da Giorgio Tonini. Ma fino a oggi si è trattato di pseudo mediazioni, che pubblicamente non lambivano la materia del contendere che è l’elettività diretta dei senatori”. E infatti ieri la combattiva senatrice Doris Lo Moro, ambasciatrice della minoranza, ha abbandonato la conferenza di pace, la piccola Monaco che da alcuni giorni l’aveva messa di fronte al ministro Maria Elena Boschi e ad Anna Finocchiaro, morbidamente transitata dal cosmo di D’Alema a quello di Renzi: “Binario morto”. Allora Gotor descrive, non senza ironia, i termini dello stallo: “Luca Lotti, sottosegretario plenipotenziario di Renzi, dice testualmente ‘siamo disponibili a tutto, trattiamo, purché l’articolo due della riforma non si tocchi’. Ecco. Ma dire ‘sono disposto alla mediazione però tiro dritto’, nella grammatica italiana, si chiama ossimoro. E’ da circa due anni che noi diciamo una cosa semplice: la relazione tra la legge elettorale e la riforma del Senato – riforma che, attenzione, noi vogliamo, perché siamo favorevoli a superare il bicameralismo perfetto – produce indirettamente una modifica della forma di governo. Tra un paio d’anni magari ci sarà qualcuno che dirà: ma in quel periodo i legislatori erano impazziti? Non si può inserire in uno stesso testo un duplice corpo elettorale. L’articolo 2 va modificato. Il problema è che a partire dalla prossima legislatura, con la riforma, con il nuovo sistema elettorale, dei futuri 730 parlamentari tre quarti saranno di fatto nominati dalle segreterie. E questa cosa, specie dopo dieci anni di porcellum, ci sembra sbagliata perché contribuisce ad aumentare il divario fra cittadini e istituzioni”. E insomma, dice Gotor, Renzi non vuole ascoltarci e cade in contraddizione, perché in realtà vuole soltanto “creare un nemico interno a sinistra perché cerca voti a destra. Ma non è detto che funzioni. Le ultime amministrative dimostrano altro. Rivelano che quando i cinquestelle arrivano al ballottaggio con il Pd, la destra vota per Grillo. Al contrario, quando il Pd va al ballottaggio con la destra, com’è successo a Venezia, i grillini non votano per noi e stanno a casa”. Eppure le antitesi, i retropensieri, le contraddizioni, e l’intreccio sinfonico dei toni avvolgono anche la minoranza, anche i senatori che dovranno votare la riforma. Dice Luigi Manconi, senatore di sinistra dal carattere indipendente: “Io sono per negoziare, negoziare, negoziare. E sono contrarissimo a ogni idea di scissione nel Pd”. Ma insistere forse allude proprio alla scissione. Rinunciare, arrendersi, sarebbe invece una improponibile mala parata.

 

“Un accordo non sarebbe una calata di braghe né per la maggioranza né per la minoranza. Sarebbe, appunto, un accordo. Si lavora, cioè, affinché l’articolo 2 della riforma contenga un riferimento all’elettività dei senatori”, dice Manconi. “Detto questo, trovo paradossale l’entusiasmo per il successo di Jeremy Corbyn in Inghilterra, che accelera il metabolismo della sinistra italiana, morbosamente attratta dallo spirito di scissione. Corbyn se ne sta da decenni con i piedi saldamente piantati nel Labour e non ha mai pensato di andarsene, nemmeno quando Blair bombardava l’Iraq. Ma non intendo minimamente prendere le distanze dalla minoranza del Pd, starò con loro nel sostenere gli emendamenti e la modifica dell’articolo 2, ma, allo stesso tempo, ripeto: negoziare negoziare negoziare”. Eppure ieri la senatrice Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, si è espressa contro l’emendabilità dell’articolo due, rafforzando la posizione del governo, di Renzi e della maggioranza del Pd. E tutto si complica, si aggroviglia. “Se Renzi insiste, attenderemo il parere del presidente del Senato, Pietro Grasso. Spero che sia positivo e che si potranno votare gli emendamenti”, dice Gotor. E s’intuisce allora come per l’uomo di sinistra sia tutto collegato: lo spirito del partito, la sua natura, l’identità della sinistra stessa e il destino delle riforme promosse da Renzi. “Noi siamo tranquilli, fermi, piantati come un chiodo nel Pd, e nessuno di noi ha intenzione di ‘ammazzare’ Renzi”, dice Gotor. “Vogliamo però impedire che nasca il partito della nazione”, aggiunge. “Uscire dal Pd significherebbe dare una mano a Renzi in questo progetto di trasformazione. La deriva neocentrista e trasformista va arginata”.

 

E insomma più si insegue la realtà nella mediazione e nelle trattative del pazzotico Pd, più la realtà si trova un passo più in là, da dove fa capolino un istante prima di sparire nel cappello del diabolico prestigiatore che sa rendere diverso l’identico e identico il diverso. C’è una incompatibilità antropologica? Una coesistenza impossibile che si rivela nelle pieghe di questa trattativa teatrale e sofferta, negli umori che esplodono nei corridoi del Parlamento? “Il mondo che si addensa attorno a Renzi non è compatibile con nessuna idea di sinistra”, risponde per esempio Corradino Mineo, uno dei senatori più attivi (e combattivi) della minoranza. “Lui vuole un monocameralismo mascherato. La posizione di Renzi è intransigente perché se mediasse salterebbe il senso profondo della sua riforma, che consiste, in realtà, nel dare più potere al governo. E questa sua idea è legata alla possibilità di fare una campagna elettorale in cui lui dice: o me o il disastro, o me o Grillo. Dunque per ora le aperture di Renzi servono solo a distinguere chi è buono (in questo momento Bersani) da chi è cattivo (D’Alema). Queste trattative adesso servono solo a demonizzare la minoranza”.

 

E allora l’impressione che il gioco sia pericoloso si rafforza: andare avanti contro Renzi può provocare un avvitamento irrazionale, condurre alla scissione. Tornare indietro, invece, è forse impossibile. Anche se, dice Mineo: “C’è forse un partito da scindere? Ma dove? Il vecchio partito non c’è più. Cosa scindi? Avresti solo dei dirigenti che se ne vanno. Bell’affare”. E qui il senatore Mineo parla come il lebbroso che si ficca le unghie nelle piaghe per sentirle meglio: “Il mio consiglio a tutti è questo: diventate opportunamente renziani”. E insomma la scissione è l’unica cosa che non esiste, dice lui, perché “il vecchio partito non c’è, non lo incontri più nelle piazze e nelle sezioni, alle feste dell’Unità. Ci sono degli insediamenti, in Emilia. Ma quella gente ormai sta a guardare. C’è un partito nuovo, con un mondo nuovo intorno: si condensano attorno a Renzi dei veterostalinisti per i quali va tutto bene purché si stia al governo, dei cripto berlusconiani e dei portatori di voti. In Sicilia hai Crocetta, in Campania c’è De Luca, in Puglia c’è Emiliano”.

 

Eppure le parole, nel Pd, vengono maneggiate senza cautela. “C’è purtroppo reciprocità nel ricorso alle tinte forti, all’enfasi, all’aggressività”, dice Manconi. “Quando Renzi, in più di una occasione, ha liquidato le critiche dei senatori come dovute alla volontà di salvarsi poltrona e stipendio ha compromesso la correttezza del dibattito. Ma si tratta di espressioni tanto offensive quanto quelle di chi gli imputa una svolta autoritaria. Mi sento di dire che il conflitto tra maggioranza e minoranza rientra nella fisiologia della lotta politica”. E Gotor: “E’ passato inosservato che alla festa nazionale del Pd a Milano, nel giorno della chiusura, Renzi ha parlato di fronte ad appena quattromila persone. Questo fatto non è considerato nemmeno un problema. Ma in quell’occasione è grave che abbia usato l’immagine del bambino siriano trovato morto sulle spiagge turche per attaccare la minoranza del suo partito. E Roberto Giachetti, l’ho letto lunedì, ha scritto testualmente che il vero obiettivo della minoranza è ‘ammazzare’ Renzi. C’è evidentemente un problema di pulizia del linguaggio”.

 

[**Video_box_2**]Che può tracimare in azione politica, nel divorzio? “In questa legislatura noi abbiamo votato lealmente, per esempio tutti i candidati al Quirinale: Marini, Prodi, Napolitano, Mattarella”, risponde Gotor. “E al governo di Renzi, in occasione del voto per il nuovo capo dello stato, abbiamo aperto un credito. Ora lui apra un tavolo di mediazione sul Senato. Sul serio. Su diecimila provvedimenti in questa legislatura io non ne ho votato soltanto uno: l’Italicum. La verità è che io al governo Renzi ho dato per quarantadue volte la fiducia. Delegittimazione reciproca? In Italia siamo disabituati alla dialettica. Per noi Renzi non è un usurpatore. Renzi è legittimato ed è il segretario”. Ma? “Ma sta governando con i voti del 2013, e per questo servirebbe più condivisione. Fin quando Renzi governerà grazie al risultato elettorale del 2013, buona creanza politica dovrebbe indurrlo a un maggior rispetto. C’è un problema se Paolo Mieli mi paragona, sul Corriere, a Corbin, che ha votato 500 volte contro il suo partito”.

 

Corbin, ancora lui, il neo leader laburista inglese. Quasi un modello, persino a contrario, per qualcuno. “Il Labour è un partito nel quale i trotzkisti, i massimalisti e i sindacalisti radicali vengono bistrattati, talvolta espulsi ma mai se ne vanno a fondare nuovi partitini”, dice Manconi. “Quella di Corbyn e del Labour è una risposta intelligente alla pulsione scissionistica e frazionistica che perversamente tenta la sinistra italiana”. Così alla fine Gotor lascia intravvedere la politica, un calcolo (e dunque un rischio) dietro queste guerre e guerriglie portate avanti nel Pd con una gravità trionfante. “Renzi avrebbe grandi vantaggi dall’unità del Pd. E per questo credo che il suo muro contro muro abbia anche elementi tattici. Il Pd se vuole vincere le politiche dovrà arrivare unito a quel l’appuntamento e questo è compito del segretario del partito”. Ecco. Ma il calcolo, se c’è, è lo stesso che fa anche la minoranza. Dubbio, tremendo dubbio: e se fosse sbagliato?

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.