Pier Luigi Bersani (foto LaPresse)

Bersani nella terra di mezzo

Mario Sechi
Studiare la traiettoria di Bersani, vederlo tra Cuperlo e D’Attorre, indagare la sua ossessione Verdini e capire che nella parabola di questo figlio del popolo che non ha “mai dato bidoni alla Festa dell’Unità” non ci si può più rassegnare al crash test. Soluzioni.
Nel gioco degli scacchi, sarebbe un pezzo anomalo tra il Cuperlo che fa le diagonali e il D’Attorre delle linee rette. Non fa il salto del cavallo, non ha la libertà della regina, non è un alfiere, non è una torre, non è un pedone qualsiasi, non è mai stato re e mai lo sarà. E’ Pier Luigi Bersani, un buon uomo che ha combattuto una grande battaglia per la vita (e l’ha vinta) e ha giocato una grande partita per la politica (e l’ha persa). Cosa ci faccia lui, figlio di un meccanico e benzinaio, tra gli “astrattisti” della minoranza del Pd, resta per me un mistero. Bersani evoca il profumo degli idrocarburi, il clangore del metallo, il rombo dell’Emilia dei motori, della velocità, dei pistoni, dei carburatori, del cambio d’olio, degli ammortizzatori, delle marmitte. Bersani è la provincia con l’immaginario delle tovagliette psichedeliche, un’ipnosi culinaria a quadretti rossi, la bonarda spumeggiante, il prosciutto e massì, anche la birra elettorale in fondo ci sta. Osteria e avanti popolo. Senza riscossa. E poi, lo vedi tra Cuperlo e D’Attorre e concludi che qualcosa deve essere andato storto nella parabola politica di questo figlio del popolo che non ha “mai dato un bidone alla Festa dell’Unità”. Mentre la Brigata Kalimera pregustava il rovescio del governo, la rotta e la ritirata dell’armata renziana, Bersani come un gladiatore stanco ha messo da parte l’elmo e la spada e ha cominciato a ragionare sul come uscire da quell’arena vivo e con l’onore delle armi. Ha siglato l’accordo con Renzi sulla riforma del Senato perché il suo realismo alla fine prevale sempre sull’infantilismo della strana compagnia di giro che si è raccolta intorno a lui. Subito dopo, in un momento tutto Orgoglio e Pregiudizio, ha sentenziato: “Questo è il metodo Mattarella, troviamo la nostra quadra nel Pd e non c’è bisogno di Verdini”. Denis è la sua nuova ossessione, l’Altro Toscano, la chioma bianca da Jean Louis David. Tuona, Bersani: “Vedo il senatore Verdini e compagnia, con gli amici di Cosentino e compagnia, che stanno cercando di entrare nel giardino di casa nostra”. Il giardino, neanche fosse quello delle delizie di Hieronymus Bosch. Sottolinea, Bersani: “Mi aspetterei che dal Nazareno venisse una parola chiara su questo delirio trasformista, perché non vorrei si sottovalutasse l'effetto che queste cose hanno sui nostri militanti”. Illusionismi. Perché Pier Luigi, nato a Bettola, classe 1951, pragmatico ministro dello Sviluppo del governo Prodi nel 2006, sa bene che in futuro ci sarà bisogno anche del gruppo di banderilleros messo su da Verdini. Perché la legislatura è nata come un legno storto che non si può raddrizzare e lui, Pier Luigi, ne è uno dei padri.

 

Nel 2013 aveva tutti i numeri dalla sua parte. Poteva vincere le elezioni. Riuscì nella straordinaria impresa di non vincere e non perdere, e fu scaraventato in una Terra di Mezzo dove gli sembrò possibile un accordo di governo con l’impossibile: Beppe Grillo. Con questo disegno prometeico in testa, catapultò due mezze figure – Grasso e Boldrini - in vetta al Senato e alla Camera. Errore blu. Da quel momento tutto quello che poteva sbagliare lo sbagliò: mise in piedi un governo con poca gasolina e senza un pilota al volante (Enrico Letta), assecondò una gestione del partito con molti caminetti ma senza legna da ardere. Risultato: Renzi avanzò come la cavalleria di Alessandro Magno contro Dario di Persia. Matteo in sella a Bucefalo, Bersani in fuga in Lambretta.

 

Bersani ha una saggezza carsica, ma digerisce i problemi con lentezza, deve vedere sempre il pericolo in faccia per convincersi che quella tal cosa sta succedendo proprio a lui. Spesso non basta neanche la luce del treno in fondo al tunnel per convincerlo a cambiare strada. La storia dimostra che si fa prendere dalla passione per i crash-test.  Solo ora (forse) sta cominciando a capire la natura di Renzi. Non è solo una questione di prove di forza, ma di velocità e coraggio. Il segretario del partito è uno che si butta in acqua “e vediamo cosa succede”, l’ex segretario invece si definisce “un uomo di fiume” e il corso d’acqua che (ri)conosce Bersani è lento, maestoso, paziente, forte, ma non insidioso, capriccioso e affamato come il mare in burrasca del renzismo. Durante la trattativa per l’elezione del Presidente della Repubblica – quella che oggi Bersani considera un esempio virtuoso – lui e i suoi vedevano “Nazareni” in agguato anche dietro la foto di Che Guevara appesa ai muri della sede del partito. “Non voteremo il candidato di Berlusconi”. “Non poniamo veti, ma in quarta votazione non ci portino un nome scelto nel chiuso del Nazareno”. Parole di Bersani, fine gennaio del 2013. Non aveva capito un fico secco di quel che stava accadendo: Renzi cercava una posizione autonoma, giostrando tra il Cavaliere (che pensava di poter profittare della spaccatura nel Pd) e la minoranza dem in fase cavallo di frisia. Quando Renzi propose il nome di Mattarella, tutti rimasero appesi al soffitto come baccalà sotto sale: uno a cui Bersani non poteva dire no, uno a cui Berlusconi non poteva dire sì. Renzi scelse il partito, ma soprattutto se stesso.

 

L’accordo sulla riforma del Senato ha lo stesso schema della “Stangata del Quirinale”: melina del capo, treccine ad alto voltaggio di Maria Elena Boschi, sguardo severo di Anna Finocchiaro, diplomazia lottiana, drammatizzazione in direzione, faccia a faccia, “stai sereno”, emissari che partono, “busta A e busta B”, prendere o lasciare. Alla fine la minoranza del Pd ha preso. Punto. Contro Matteo, ma senza un’idea chiara. Stato confusionale messo in mostra in una pagina con doppia intervista sul Fatto Quotidiano. L’ex dissidente Massimo Mucchetti in versione Slow Food: “La politica è anche l’arte del possibile”. L’ex parlamentare ds e costituzionalista Massimo Villone in versione gourmet Micromega: “O si sono fatti imbrogliare da Renzi, oppure si sono prestati a una rappresentazione teatrale”. Sintesi dal Circolo Arci: “Hanno fatto pippa”.

 

[**Video_box_2**]Potevano fare altro? Sì, la scissione. Evento sognato, ma ad oggi irrealizzabile da quel drappello di oppositori. Non è un’operazione politica compatibile con il dna dell’ex segretario, nato e cresciuto nella cultura del partito emiliano. Bersani lo definì “uno strumento” nel suo libro intitolato “Per una buona ragione”. Correva l’anno 2011, Pier Luigi si confessava con Miguel Gotor e Claudio Sardo, non immaginava l’arrivo di un bulldozer targato Firenze. C’era il partito, “uno strumento”, appunto, c’era un “affezionato della Ditta” e molti voli pindarici, come “costruire l’Italia oltre Berlusconi”. Qualche anno dopo arrivò una campagna elettorale per “smacchiare il giaguaro”. E’ andata come sappiamo. E va come vediamo. “Uno strumento”, il partito. Il laureato in filosofia Bersani avrebbe dovuto leggere con più attenzione Gramsci: “Principe potrebbe essere un capo di stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato: in questo senso, “principe”, potrebbe tradursi in lingua moderna “partito politico””. E’ una nota del 1930 di Gramsci sul Machiavelli, il segretario fiorentino.