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La guerra d'Ucraina potrà crescere fino a una nuova Grande guerra

Adriano Sofri

Non credo negli effetti di marce che dicono: pace. Possono tutt’al più scaldare i cuori dei marciatori. Non vedo marce che dicano: guerra, se non in qualche traveggola. Un impegno condiviso per un progetto di disarmo parziale e concertato è quello di cui c’è bisogno

Ripeto la convinzione che un’iniziativa tesa a sospendere il mattatoio e cercare una soluzione negoziata fra Russia e Ucraina spetti soprattutto, e forse soltanto, all’Unione europea. L’Unione europea si dichiara, difettosamente certo, fautrice di democrazia e diritti, il cui corollario è l’amore per la pace e il ripudio della legge del più forte. E’ la dirimpettaia della Federazione russa alle frontiere dell’Ucraina. E’ l’associazione di stati cui l’Ucraina ha mostrato perdutamente di voler appartenere, in una comunità civile, al di là dell’adesione militare alla Nato alla quale ha rinunciato. Altruismo ed egoismo sono congiunti nell’interesse europeo a sostenere l’Ucraina aggredita che si difende, e a riaprire un’amicizia con una Russia non ridotta alla sua paranoia imperiale. 

Del resto chi, se no? L’Onu è fuori causa. Non dispone più nemmeno della buona retorica, pur impotente, di altri segretari. E’ rassegnata. Se non sta ricevendo il colpo di grazia è perché l’aveva già avuto: nella Repubblica democratica del Congo, probabilmente. I caschi blu furono umiliati sul monte Igman e a Pale, e poi a Srebrenica, e i serbisti non avevano neanche l’atomica, figurarseli a Mariupol. La Turchia di Erdogan, così fervidamente impegnata a barcamenarsi fra i contendenti (alla lettera, fra strettoie diplomatiche e stretti marittimi) abusando della propria doppiezza di socia del Cremlino e della Nato, è priva del minimo credito di diritto. La Cina, s’è detto. I suoi idoli cambiano, ma resta la paziente attesa che il cadavere del nemico (anche del provvisorio amico) passi lungo il fiume. Intanto collabora all’armamento serbo, la prossima trincea. Gli Stati Uniti hanno, con il Regno Unito, il monopolio della tutela militare della resistenza ucraina e delle parole grosse, che li esclude dalla trattativa. Ed è lecito immaginare che scommettano davvero su una durata del conflitto capace di scuotere le fondamenta del regime di Putin. 

Aggiungo qui un’osservazione, perché trovo buffissimo il gran parlare dell’incontinenza verbale di Biden a proposito di genocidio – ora si è aggiunto addirittura Trump, pentito di lodare il “genio” del Putin invasore, per dichiararlo anche lui genocida. Fondata o no che sia secondo il diritto internazionale, l’evocazione del “genocidio” consente a Biden – l’ha ricordato Carlo De Benedetti, che va al sodo – di disporre l’invio di armamenti senza passare attraverso il controllo del Congresso. E’ una questione pratica, prima di tutto. Bastava ricordarsi della pervicacia sfacciata di Bill Clinton, fresco della disfatta in Somalia, nel rifiutare di riconoscere come genocidio – “the G-word”, la parola G – il mattatoio ruandese del 1994, per non essere tenuto a intervenirvi secondo la Convenzione del 1948; e poi, 4 anni e un milione di morti dopo, a Kigali, Clinton pronunciò le sue solenni scuse, e proclamò solennemente: “Mai più genocidio”. E’ la stessa ragione, del resto, per cui Zelensky evoca il genocidio, oltre che per la devastazione di vite e cose del suo paese, e per la teoria putinista sull’inesistenza dell’Ucraina. Più in generale, in tragedie come la Bosnia 1992-’95 o la Genova 2001, termini come “genocidio” e “tortura” passano dalla definizione di specifiche fattispecie giuridiche al linguaggio morale. Nel quale Genocidio e Tortura non si differenziano più materialmente da delitti complementari e assimilati – Crimini contro l’umanità e la pace, per il primo, Trattamenti inumani e degradanti per la seconda – bensì moralmente, occupando il punto più alto di una graduatoria di malvagità ed efferatezza. Cosicché le vittime cui non siano riconosciuti se ne sentono come diminuite e tradite.

Obiezione: l’Unione europea è piena di inciampi e imbarazzi. Meno di quanto pretenda il luogo comune. La cosiddetta guerra d’Ucraina è feroce e strana, come le serene visite delle autorità internazionali alla Kyiv bombardata. Donne di vertice, Metsola, von der Leyen, in visita a Kyiv, a Bucha, hanno dato un’idea bella dell’Unione. Che in generale si è mostrata meno disunita e reciprocamente sospettosa, e commossa quanto bastava. Ma non ha una partita facile. Le manca una leadership. La Germania ha visto in parte compromesso il retaggio recente di Merkel, sicché il suo governo deve trovare una strada propria. E la dipendenza dal gas russo – con l’incredibile, invereconda zavorra di Schroeder, lui sì dipendente – ne inceppa la libertà di movimento. Con la notevole metamorfosi dei Verdi e del loro ruolo, così esposto da intimidire Scholz. Il passo falso di Zelensky verso Steinmeier, dovuto certo all’impulso di carezzare l’orgoglio degli ucraini bombardati e resistenti, è stato un vero peccato. E il ballottaggio francese sospende almeno fino al 25 aprile un’iniziativa dei paesi maggiori. Spagna e Italia preferiscono per il momento la seconda fila – non è inevitabile. Una vittoria di Le Pen farebbe piazza pulita dell’Unione europea. Per dire di una sola fra le tante conseguenze senza riparo, si pensi al grandioso riarmo deciso dalla Germania quando non fosse più parte del leggendario progetto della difesa europea, e diventasse solo tedesco. Gianni Cuperlo, nel libro sul Rinascimento europeo, ricorda il Thomas Mann che nel 1953 parlando agli studenti implorava “di non mirare a un’Europa tedesca, ma a una Germania europea”. 

Ancora, la guerra d’Ucraina ha pressoché invertito il peso rispettivo dell’Europa di mezzo e orientale nei confronti di quella occidentale e dei fondatori: Polonia, paesi baltici e scandinavi, Romania, Bulgaria, Moldavia, Cechia, Slovacchia, stanno a ridosso della guerra e la maneggiano con un piglio più sicuro. (L’Ungheria, caricatura indecente della rivoluzione del 1956, sta invece al centro di una striscia non russofila ma strettamente putiniana, dalla Serbia alla Serbo-Bosnia di Dodik, alla Bielorussia: una spina avvelenata nel fianco dell’Europa). L’inversione porta con sé contraddizioni clamorose. Era stridente la differenza tra la frontiera polacca con la Bielorussia e quella con l’Ucraina, migranti neri e bianchi. Era stridente ieri la notizia sulla difficoltà delle profughe ucraine stuprate a decidere del frutto dello stupro in Polonia. E’ un’Europa più nazionalista, più insofferente della compartecipazione di sovranità e di un diritto comune, e più animosa e risentita nei confronti della Russia – connotato, quest’ultimo, dovuto alla troppo buona conoscenza degli artigli dell’orso. Le due giovani donne alla testa di Svezia e Finlandia incarnano a meraviglia il paradosso putiniano, e dei putiniani più o meno per caso, sulla guerra per rompere l’assedio della Nato. E hanno finalmente tolto di dosso alla Finlandia il nome infingardo di finlandizzazione, e così sia del nome di Quisling che pesa sulla brava Norvegia. 

Questa Europa prende un provvisorio sopravvento sull’Europa dei fondatori, per di più insicuri di sé all’interno. Così la Francia, salva la rielezione che renderebbe Macron tranquillo e, all’ultimo mandato, meno suscettibile ai pensieri elettorali; così l’Italia che vive in una condizione istituzionale delle più bizzarre ed effimere. 

C’è il grande attivismo del Regno Unito, radicato nella storia e anche nei guai scadenti e urgenti di Boris Johnson. Osservo che una mossa come la deportazione dei migranti in Ruanda è peggiore di una battaglia perduta. Mi ha fatto ricordare l’attacco al Canale di Suez di Gran Bretagna e Francia nel ’56, che servì a pagare il pieno ai carri armati russi a Budapest.

Ho proposto i termini di una trattativa adeguata, sfidando l’accusa di irrealismo. Che riduca, “de-escali”, come dicono, non solo il fuoco ma anche la posta della “guerra”, restituendola alla dimensione di una contesa di frontiera.

Un Alto Adige-Südtirol enorme, diciamo? Offrendo in cambio un orizzonte così più vasto e magnanimo da compensare lo spostamento di attenzioni, desideri e gratificazioni: una nuova configurazione della sicurezza europea, Ue e Russia comprese, che coinvolga riduzione e controllo concordato degli armamenti. Non è impossibile, in passato è avvenuto. Anche i Cruise e gli SS 20 tornarono indietro, quando si erano fatti troppo vicini. Mi chiedo se una simile iniziativa non potrebbe essere assunta da protagonisti e attori europei che non siano titolari di stati e di governi, e appartengano invece a loro partiti con le mani e le teste più libere, o a persone e comunità della società civile, con un programma così aperto e persuasivo da raccogliere e rendere efficace il sentimento di milioni, altrimenti dissipato in mobilitazioni di bandiera e in frustrazioni private. Mario Primicerio ha ricordato La Pira. Non credo negli effetti di marce che dicono: pace. Possono tutt’al più scaldare i cuori dei marciatori. Non vedo marce che dicano: guerra, se non in qualche traveggola. Un impegno condiviso per un progetto di disarmo parziale e concertato è quello di cui c’è bisogno, quello che salverebbe tutte le facce perché salverebbe menti e anime, e che proteggerebbe alla sua ombra un negoziato diretto fra Russia e Ucraina, stanche di guerra. Se una vasta e ambiziosa iniziativa di pace non riuscirà a rimpicciolire e rimettere dentro i suoi confini la guerra d’Ucraina, sarà la guerra d’Ucraina a crescere fino a una nuova e più distruttiva Grande guerra.  (2-continua)