Anastasiia e Viacheslav, entrambi arruolati nell’esercito ucraino, celebrano il loro matrimonio a Kyiv (Mikhail Palinchak/Ansa) 

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Le 48 e una notte di Kyiv

Adriano Sofri

La discussione pubblica sulla guerra sembra ferma al primo giorno, senza proposte per una via di fuga. E nel conflitto fra Putin e Zelensky, "attori personali", il presidente ucraino è in versione Scheherazade

A) È trascorso più di un mese e mezzo dall’invasione dell’Ucraina. Ognuno dei giorni scorsi ha portato con sé eventi drammatici, tragici, imprevisti, sconvolgenti. Eppure una larga parte della discussione pubblica sembra ferma al primo giorno. Più esattamente: il primo giorno si è presa la posizione. Negli altri 47 giorni la si è ribadita. Questo non è ragionevole. Nemmeno per chi ritiene di essere persona di principii, come nel caso esemplare del “No alla guerra, a tutte le guerre”. Una guerra può durare anni – 6, per esempio, dal 1939 al 1945; o di più, come in Siria, dal 2011 a… – e anche chi rimanga saldo sulla petizione di principio del primo giorno può finirci dentro, o nei paraggi. 

  

B) – In particolare, è sorprendente la scarsezza, quasi l’assenza, di proposte che, muovendo dal punto cui sono arrivate le cose, disegnino una via d’uscita. Così almeno mi pare, benché tenga d’occhio, come posso, il dibattito pertinente (uno dei rari esempi è nel dettagliato e dirigistico schema elaborato da Marc Weller, dell’Università di Cambridge, già direttore del Lauterpacht Centre for International Law and of the European Centre for Minority Issues, che potete leggere online).

Penso che, allo stato dei fatti, qualsiasi progetto debba rispettare tre criteri. Il primo: di non sostituirsi agli ucraini, che dispongono di un governo legittimo, prescrivendo loro che cosa debbano o non debbano fare. Il secondo: finché non ci sia un cessate il fuoco e la violenza imperversi, oltretutto in una perdurante sproporzione di risorse materiali (in particolare, il predominio aereo), gli stati che sostengono l’Ucraina continuino a fornirla di armi. Il terzo: i governi che sostengono l’Ucraina, e specialmente quelli dell’Unione europea, smettano l’inerzia diplomatica e incalzino per ottenere un cessate il fuoco e un negoziato di armistizio o di pace. Il primo punto è auto-evidente: gli ucraini sono liberi di decidere del proprio destino, e lo stanno confermando oltre ogni previsione. Dettare loro le condizioni del compromesso negoziale – o addirittura della resa, non si sa se più arrogante o più ridicolo – quanto ai temi territoriali o a quelli della collocazione internazionale, dell’armamento eccetera, è una pretesa indebita e immorale. Il secondo punto è altrettanto evidente: sospendere il sostegno materiale, in armamenti (con la limitazione dichiarata alla belligeranza diretta, come sarebbe stato nel caso della No fly zone), logistica e intelligence, equivarrebbe a disarmare l’Ucraina e abbandonarla alla potenza militare e paramilitare russa.

Il terzo punto è il più delicato: come infatti caldeggiare e disegnare la tregua e il negoziato, rispettando i primi due punti? Per questo mi pare che sia necessario e lungimirante perseguire due fini complementari: “Restituire alla guerra d’Ucraina e alla sua conclusione il rango di una tragica contesa di frontiera, liberandola dalle frustrate e paranoiche velleità di guerre di civiltà”, e contemporaneamente allargare la trama e allentarne i nodi “avanzando, per bocca dei principali portavoce dell’Unione europea, la proposta di una nuova stagione di disarmo che riprenda i fili interrotti del trattato Inf, sui missili nucleari a raggio intermedio installati in Europa da Usa e Urss, via via aggiornato e poi bruscamente interrotto… Un nuovo trattato che consideri anche per la prima volta armi come le testate nucleari ‘tattiche’, finora escluse dalla non proliferazione, e altre armi ufficialmente convenzionali ma di potenza comparabile a quella atomica”. Riprendo argomenti che ho già esposto, per precisarne i criteri. Che il contesto aggiornato rafforza: un disarmo unilaterale dalla parte ucraina, o una interruzione del sostegno occidentale, lungi dal favorire un decente negoziato, varrebbero una resa senza condizioni a Putin e alla parte peggiore del suo regime.  

  

C) Mentre una voga di determinismo “geopolitico” non fa che sottolineare la continuità di forze di lunga durata – la vocazione imperiale russa, il bisogno di egemonizzare i territori di frontiera, la spinta verso il Mediterraneo... –, questa guerra d’Ucraina ha offerto un esempio spettacoloso della rilevanza di attori personali. Putin da una parte, al punto che una crisi epocale viene illustrata con la sua biografia e la sua cartella clinica, e vincolata a una sua eventuale scomparsa, e dall’altra parte, ancora di più, Zelensky, per il quale l’espressione di “attore personale” prende un significato stretto e teatrale. Richiamo l’attenzione su un dettaglio trascurato: i tanti che si sono compiaciuti di ironizzare, o sbeffeggiare, l’attore entrato troppo nella parte di presidente, “un attore di varietà…”, sembrano ritenere che sia più appropriato diventare zar uscendo dai ranghi del Kgb (la letteratura viene in aiuto, a piacere, che si scelga “L’ispettore generale” dell’ucraino Gogol’ o il Pugaciov della “Figlia del capitano”, del moscovita Puškin trasferito a Odessa). 

Già che ci sono, mi fermo su Zelensky, anche perché ho fatto un grosso errore il 24 febbraio, quando gli ho affiancato il nome di Allende. L’errore non stava nella lesa maestà socialista che qualche bigotto mi ha imputato, vedevo bene la differenza fra i due, ma nella previsione: davo Zelensky per morto ammazzato, o suicida, nel giro di ore, ed era questo a permettere il confronto. Prendevo in parola quel Putin che, alla dimostrazione che i suoi servizisti avevano avvelenato Navalny, aveva obiettato che se fossero stati loro non avrebbero mancato il colpo. Zelensky ha tenuto duro, e si è guadagnato un’accanita avversione da molti, che ne hanno fatto poco meno (o senz’altro più) che il responsabile della “guerra” e il cinico giocatore sulla pelle del suo popolo. Si può certo dissentire da argomenti e toni di Zelensky, ci mancherebbe. Ricordandosi di immaginare che uno Zelensky il quale proclamasse la resa in nome della salvezza del suo popolo sarebbe finito appeso per i piedi sulla Maidan. Quanto a uno Zelensky che accettasse di farsi dare il passaggio a Miami, era una questione di carattere, e si vede che non è un caratterista del genere. La condizione in cui opera è destinata a usurare immagine e freschezza di Zelensky, e a moltiplicare ogni giorno il rischio di passi falsi. Lo si tratta da molti come un vanesio, grato di riflettori, pose, arringhe ai parlamenti e visite di autorità, scambiando il suo set con quelli del nostro talk. Allora vorrei fare un altro accostamento azzardato, anzi ancora di più: fra Zelensky e Scheherazade. La quale, con un racconto d’appendice per notte, strappa un giorno di vita in più al fottuto re di Persia, per mille e una notte (poi lui crolla). Zelensky con un video o un’arringa a un Parlamento al giorno ha venduto cara la pelle. Si è – anche – salvato la vita, per 48 e una notte, finora: il capriccio del monarca orientale pende sempre sul suo capo. Meglio dirgliela in tempo, una simpatia umana.
(Continua)