EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

E datevelo un bacio, Unione europea e Ucraina

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Zelensky non parla più di entrare nell’Ue, si aspettava un calore che non è  arrivato. Bruxelles fatica a superare il tabù dell’allargamento

Il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’invasione russa, quando si pensava che di lì a poco Vladimir Putin avrebbe rovesciato il governo di Kyiv e ingoiato l’Ucraina, il presidente  Volodymyr Zelensky ha firmato la richiesta del suo paese di diventare un membro dell’Unione europea: “Il nostro obiettivo è stare con tutti voi europei e di essere uguali a voi. Penso che sia giusto, penso che ce lo meritiamo”. Zelensky era limpidissimo nella sua proposta di matrimonio: ci assomigliamo, ci apparteniamo, vi stiamo dimostrando che siamo disposti a rimetterci la vita, letteralmente, per difendere quello in cui crediamo, ce lo meritiamo. Sottinteso: so che voi siete freddini, ma ora non potete più dirmi di no.

 

Tre giorni più tardi, il primo marzo,  il Parlamento europeo ha approvato, a grande maggioranza, una risoluzione in cui invita le istituzioni europee ad attivarsi per concedere all’Ucraina lo status di paese candidato: sulla domanda di adesione dovrà esprimersi il Consiglio europeo previa consultazione con la Commissione. La “casa europea”, come l’ha chiamata Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco, è aperta, ma quando ci si potrà accomodare insieme sui divani dei vertici con l’anello al dito non è deciso. Non è oggi, ma non è nemmeno domani. La procedura accelerata è accelerata solo di nome, certo è più lenta della scia di massacri che i russi stanno lasciando spostandosi – riorganizzandosi, dicono loro – sul territorio ucraino. E infatti Zelensky, che pure rinnova il suo desiderio di appartenenza, ha smesso di insistere sull’adesione all’Ue, la cita sempre di meno, non perché abbia perso le speranze, ma perché si aspettava uno slancio di tutt’altra forza, non pensava di dover essere trattato come un questuante qualsiasi, non adesso almeno.

 

L’Ue ha da molti anni un problema con la sua politica di allargamento: è dal 2013 che in Europa non entra più nessuna nuova nazione. Questa cautela ha le sue ragioni, ma i candidati all’ingresso si sono un po’ disamorati: se non mi vuoi, andrò con qualcun altro, e proverò pure a essere felice. E’ superfluo ricordare che di questo  vuoto se n’è approfittata la Russia.

 

Come Israele. Parlando al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Zelensky ha detto che l’Ucraina non è più la stessa, che la guerra sta cambiando tutto, anche i sogni, anche le aspirazioni. E se il suo paese sognava un cammino europeo, ora capisce che non potrà essere così. E nelle sue parole si intravedono la delusione, la rabbia e la rassegnazione insieme. Se il modello non è più l’Ue, Zelensky si immagina l’Ucraina come una “grande Israele”, perché il suo paese dovrà lottare per la sua sopravvivenza, per la sua esistenza, ha una minaccia costante e anche molta solitudine attorno. “Non sarà un paese europeo”, ha detto il presidente. La forza verrà da ogni casa, da ogni cittadino, ci saranno soldati ovunque, “in tutte le istituzioni, nei supermercati, nei cinema”. Il futuro sarà una lotta costante, perché la Russia rimarrà sempre la stessa e l’Ucraina può essere libera e salva soltanto armata. Ci vorrà il sostegno degli alleati internazionali, ma molto dipenderà dagli ucraini, come molto dipende dagli israeliani. Un paese in lotta per sempre: “Non saremo la Svizzera, saremo Israele”. La Russia voleva un’Ucraina smilitarizzata, e Zelensky ha risposto: è sempre stato fuori discussione, adesso lo è ancora di più. E a noi altri dice: datemi la garanzia che ci sarete, che sarete al nostro fianco. E’ questa ora la priorità: non volete il matrimonio? Datemi le armi. 

 

Dimmi almeno che lo vuoi. La rubrica Charlemagne dell’Economist si è lasciata andare a un romanticismo invero raro per raccontare la relazione tra l’Ucraina e l’Ue. Con il titolo “Dei burocrati e degli amanti”, Charlemagne dice che essere un membro dell’Ue è, come i matrimoni, una cosa binaria: o lo sei o non lo sei. Ma la burocrazia europea uccide il desiderio: nel 2013, il famoso “accordo di associazione”, che avrebbe scatenato la rivolta contro il presidente filorusso Viktor Yanukovich a Kyiv, aveva 2.135 pagine, un linguaggio complicatissimo, e un’appendice prevedeva perfino come dovesse essere la carta da utilizzare per la corrispondenza ufficiale: grammatura, spessore, tutto. “Persino per gli standard degli accordi prematrimoniali è un affare di pochissimo fascino”, scrive Charlemagne. Ma l’Ucraina non ha perso il suo ardore, sulle riforme richieste è andata a rilento ma nel 2019 ha messo nella propria Costituzione la sua ambizione di diventare un paese dell’Unione europea. La guerra ha aumentato la sua determinazione, e i paesi europei sono d’accordo nel darle almeno la cosiddetta “prospettiva europea”, che è nel linguaggio europeo l’apertura di un processo informale di allargamento. Ma la riluttanza olandese (diamo le armi e il sostegno richiesto ora, ha detto il premier dei Paesi Bassi, Mark Rutte, all’adesione ci pensiamo dopo) e anche francese (Emmanuel Macron dice che l’accesso a un paese in guerra è materia complicata) hanno fatto sì che per ora ci sia un consenso generico sul sostenere l’Ucraina nel perseguire il suo percorso europeo, mentre la Commissione deve produrre un suo report sull’accesso, che è ancora una volta una cosa diversa dal dire: sì, lo vogliamo, ci sposiamo. 

 

“Non saremo la Svizzera, saremo Israele”. Mosca vuole un’Ucraina smilitarizzata, e Zelensky risponde: lottiamo per esistere

 

Olha, la tessitrice. La persona che si occupava dell’integrazione europea ed euroatlantica a Kyiv, prima della guerra, era Olha Stefanishina. Una della squadra di Zelensky, giovane, ambiziosa, stranamente senza trascorsi nel cinema o nella produzione cinematografica, ma molto impegnata nella creazione del futuro dell’Ucraina. La Stefanishina, nata a Odessa, è una giurista e da sempre ha avuto una grande passione per la finanza. Si occupava delle questioni europee assieme al ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, e in molti si stupivano che la carica fosse stata affidata a una giurista con nessuna esperienza all’estero: ha studiato in Ucraina, è vissuta tra Kyiv e Odessa. Ora che tutto è cambiato si occupa della comunicazione come gran parte del governo, denuncia cosa succede nel suo paese, parla del presente, del passato e di un futuro che è soprattutto concentrato sulla ricostruzione dell’Ucraina. Stefanishina ha addosso, come tutti i suoi concittadini, i segni di questa guerra: suo marito Bohdan è morto durante un bombardamento a Chernihiv. 

 

Una freddezza consumata. L’ultimo paese a entrare in Europa è stata la Croazia, nel 2013. Le procedure di adesione dei Balcani sono di fatto congelate, quella controversissima della Turchia non ne parliamo neanche. Quest’ultimo decennio è stato per i paesi già membri dell’Ue molto complicato, c’è stato addirittura il primo divorzio, quello inglese, c’è stata la crisi greca con la Grexit che ha aleggiato sul continente per molto tempo, c’è stata l’ascesa dei movimenti e dei partiti nazionalisti che hanno fratturato il progetto europeo dall’interno. L’esperienza con alcuni paesi dell’est, come la Polonia e l’Ungheria, ha sedato ulteriormente le ambizioni di allargamento, perché nonostante anni di riforme e di armonizzazioni ci si è ritrovati con un blocco di paesi apertamente ostile nei confronti delle regole e degli ideali europei. Sappiamo che le forze esterne, a partire da quelle russe, hanno approfittato di questo momento di crisi per offrire alternative ideali (non fattive né finanziarie) ai paesi più riluttanti e questo non ha fatto altro che deprimere la voglia di invitare qualcun altro a entrare. Il dibattito sull’allargamento ha un significato molto profondo per l’identità del progetto europeo: non c’è soft power più potente della capacità dell’Ue di attirare popoli e nazioni e di unirsi a loro, integrarli, rispettandone le diversità. Se l’Ue rinuncia a questo suo soft power, fa un torto non soltanto ai corteggiatori ma anche al significato stesso della sua evoluzione da alleanza economica ad alleanza politica, sociale e culturale. La paura dell’Ue di non avere la forza di tenere tutti insieme ha però avuto il sopravvento.

 

Dal 2013 per l’Ue i processi di adesione sono congelati, l’ultima a entrare è stata la Croazia. Cinque paesi sono candidati

 

Perché io no? Tra i leader europei c’è chi sostiene che accelerare il processo di adesione dell’Ucraina potrebbe far venire fuori un coro di scontenti. Attualmente sono cinque i paesi che attendono e che hanno lo status di candidato: Albania, Repubblica della Macedonia del nord, Montenegro, Serbia e Turchia e in questi anni, alcuni di loro hanno cercato di fare di tutto per vedersi garantire l’accesso nell’Ue. La Macedonia del nord ha dovuto trovare un compromesso con la Grecia sul nome della nazione e questo ha scatenato proteste molto forti. Alcuni hanno aspirazioni più determinate di altri, che invece rimangono sibillini. La Serbia, per esempio, non ha mai chiarito la sua ambiguità, dice di voler entrare nell’Ue, ma la sua amicizia con Russia e Cina sembra più forte delle sue simpatie europee: avete presente le manifestazioni con Z, simbolo dell’aggressione russa in Ucraina, per le strade di Belgrado? Ecco, questo non ha incoraggiato gli europei a spalancare le braccia alla Serbia. Poi ci sono i potenziali candidati come la Bosnia Erzegovina, che in questi ultimi mesi teme il ritorno della violenza e degli scontri etnici: la sua entità serba, la Republika Srpska, dice di volere l’indipendenza e il ritorno di una guerra nei Balcani preoccupa sul serio l’Unione europea. Tutti questi paesi nel vedere l’Ucraina passare avanti, potrebbero sentirsi traditi, potrebbero domandarsi: serve proprio una guerra per essere definiti europei?

 

Nessuno si aspetta che l’Ucraina entri nell’Ue nel breve termine, nemmeno Zelensky. Ma si aspetta un impegno, questo sì, che non abbia a che fare soltanto con le regole sulle etichette delle lattine di ceci o sulle banche. L’Ue dovrebbe superare le sue paure sull’allargamento e recuperare lo spirito di inizio secolo, quando l’ingresso di altri paesi era percepito per quel che era: un’opportunità. Un’Unione, tutte le unioni sono anche un affare di cuore.