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Vota l'Ungheria, l'unico paese dell'Ue che non sostiene Kyiv

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Per difendere il rapporto con Putin, che neppure chiama amico, Orbán mette il veto all’unità europea. Con un fantasma alle spalle: la Transcarpazia 

Ci siamo abituati ai “no” di Viktor Orbán. O meglio, quando è l’Unione europea a chiedere qualcosa, a voler dimostrare quanto è forte e quanto è compatta, il premier ungherese fa il gioco contrario e sembra indicare, anche ai più distratti, che le crepe esistono. Le amplia, le sottolinea, le scava. E’ accaduto ogni volta che l’Unione europea ha cercato di esprimere una politica estera comune e Orbán, soprattutto se si trattava di difendere i suoi amici internazionali, la Russia e la Cina, si schierava con loro e non con i colleghi europei. E’ stato la scialuppa di salvataggio di Mosca e di Pechino varie volte. Per molti, invece, è il loro cavallo di Troia. I presidenti Vladimir Putin e Xi Jinping si sono abituati a pensare: cosa importa se gli europei ci gridano contro e ci minacciano, tanto noi abbiamo Viktor che protegge i nostri affari. Ora che la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Ungheria ha dovuto trovare il suo posizionamento. E ha fatto fatica. All’inizio tentennava, rimuginava, aspettava. Poi questa attesa si è fatta scomoda, tanto più che c’era la Polonia, l’altra nazione che negli ultimi anni sta facendo la guerra all’Ue, che invece si mostrava europeissima e atlanticissima nel difendere Kyiv.

 

Orbán invece prima voleva bloccare la decisione dei colleghi europei di mandare armi. Poi ha fatto un passo indietro, ma ha comunque stabilito che dal  territorio ungherese le armi non sarebbero passate. Sulle sanzioni si è schierato con gli altri paesi membri, ma arrivato al quinto round di misure che Bruxelles potrebbe imporre alla Russia, ha posto il veto. Le nuove sanzioni riguardano l’embargo sul petrolio russo e il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, ha avvertito: sulle sanzioni contro le importazioni energetiche dalla Russia, “il consenso europeo non sarà certamente possibile”. La scusa è che così si metterebbe a repentaglio la sicurezza energetica dell’Ungheria.  Szijjártó ha voluto lasciar intendere  che Budapest non potrà fare il vassallo di Putin, ma neppure quello di Bruxelles. Per cui, d’ora in avanti indurirà le sue posizioni nell’Ue e nella Nato per difendere i propri interessi nazionali. Un modo per dire: ecco la crepa, guardatela bene. 

 

Con la guerra non poi così lontana dal confine, con i rifugiati da accogliere, con le questioni esistenziali sulle amicizie da scegliere, il 3 aprile in Ungheria ci saranno le elezioni che decideranno molto sul futuro del paese e sulla sua democrazia. Contro Orbán si è presentata una coalizione vastissima che va dall’estrema destra all’estrema sinistra, che propone come sfidante di Orbán un conservatore. E’ Péter Márki-Zay, che su molte questioni, come l’immigrazione, dice: Orbán qualche ragione ce l’ha. Su certi temi quindi c’è un sostanziale consenso, ma non su tutti: sul rapporto deformante con Vladimir Putin no, non c’è.

 

Noi non siamo amici. Il premier ungherese una volta ha chiarito: io e Putin non siamo amici. Il presidente russo “non prova sentimenti personali”, non mostra la sua personalità, quindi è impossibile stabilire una relazione di amicizia. Putin quindi per Orbán è stato un modello, l’ispiratore della democrazia illiberale: quella forma ibrida che lentamente scivola verso la dittatura. Che della democrazia conserva le spoglie – le elezioni – ma che poi trasforma il potere in qualcosa di prestabilito, eterno, monolitico. Orbán ammira di Putin l’aver reso di nuovo grande la Russia, di averla riportata sulla scena mondiale. Eppure, il giovane Orbán, lo studente che voleva liberarsi del regime comunista, uno come Putin lo avrebbe detestato e combattuto. Invece per anni, Orbán l’ha corteggiato. Quando il suo Fidesz era all’opposizione, accusava addirittura il Partito socialista al governo di voler concludere un affare frettoloso con Mosca sul gasdotto South Stream, aveva definito i socialisti dei traditori. Quando però nel 2010 è diventato premier per la seconda volta ha iniziato il suo corteggiamento della Russia e anche della Cina e della Turchia. E non soltanto ha appoggiato il gasdotto, ma ha concluso un affare con la russa Rosatom per la centrale nucleare ungherese Paks. Ora c’è un progetto per la costruzione della Paks II e se ne occupa sempre Rosatom. Nel 2014, quando la Crimea ucraina fu annessa illegalmente alla Russia, Orbán ha accolto Putin a Budapest rompendo l’isolamento diplomatico. Più volte è corso incontro a Putin, anche sui vaccini durante la pandemia. Gli ungheresi non sono disturbati da questo rapporto. Flora Garamvolgyi, giornalista del Guardian,  ci ha detto: “Per la base di elettori di Orbán, questioni quotidiane come i prezzi del gas e del riscaldamento sono più importanti della politica estera”.

 

La propaganda di Fidesz dice che Bruxelles vuole la guerra e il premier, che sta con Mosca, è la garanzia della pace


Il manifesto ideologico. Il 15 marzo, festa nazionale dell’Ungheria, Orbán ha tenuto un discorso con la scritta “sicurezza e pace” sul podio e di fronte a un pubblico che era sostanzialmente di Fidesz, il suo partito, che poco prima aveva organizzato una marcia per la pace. Il discorso si è presto trasformato in un annuncio elettorale e anche un po’ di guerra. Ha cominciato dicendo che la sinistra, assieme al solito George Soros, ai media (chissà quali visto che in Ungheria li controlla quasi tutti lui) e a Bruxelles, vuole trascinare il paese “nell’incubo dell’estremismo” sinistrorso. Per fortuna, ha detto, Márki-Zay è un incapace, come incapace, anzi, “un gatto nero che porta solo rogne”, è Donald Tusk, ex premier polacco ed ex presidente del Consiglio europeo che in quelle ore era a un incontro assieme a Márki-Zay. Poi Orbán è passato alla guerra. Ha detto che la pace è per i forti e che i deboli possono solo sperare che i forti siano misericordiosi. Quelli che sono riconosciuti come forti, soprattutto gli americani e gli europei, non possono sapere che cosa vogliono gli ungheresi, ma per fortuna c’è il loro premier che lo sa e che d’ora in avanti (lo fa da sempre ma vabbé) penserà soltanto all’interesse nazionale. “Si sta giocando a scacchi nell’est europeo”, ha detto Orbán, “ma noi non saremo una pedina degli altri”, perché “noi siamo i conservatori per la pace e siamo contro la sinistra per la guerra”, che ci vuole per forza trascinare in questo conflitto che non è il nostro. L’equidistanza di Orbán, che è comunque più vicina a Putin che alla Nato, ha delle motivazioni ideologiche molto profonde. I rapporti tra Ungheria e Ucraina sono da tempo tesi perché Orbán dice che Kyiv discrimina la minoranza ungherese, circa 150 mila persone, che vive nella regione al confine, in territorio ucraino: la Transcarpazia. Questa è una terra che è sempre appartenuta al Regno d’Ungheria e poi all’impero asburgico fino alla sua dissoluzione. Da quel momento ha fatto parte della Cecoslovacchia, fino al 1939 quando le forze naziste ungheresi la occuparono. Poi fece parte dell’Unione sovietica e dopo l’indipendenza è diventata la ventiquattresima oblast dell’Ucraina. Ma in questo momento in cui il paese è in guerra e la Russia sta cercando di disgregarla in più parti, la minoranza ungherese in Transcarpazia è salita molto in alto nelle priorità nazionaliste di Orbán: non diamo le armi all’Ucraina perché magari poi vengono usate contro la Transcarpazia, ha detto il premier, e al discorso del 15 marzo come prima cosa ha dato il benvenuto agli abitanti della Transcarpazia arrivati ad applaudirlo.

 

L’accoglienza. I rifugiati però non sono arrivati soltanto dalla Transcarpazia, ma da tutta l’Ucraina. La politica di Orbán con i migranti è sempre stata quella delle porte chiuse. Ha alzato un muro al confine con la Serbia per rendere la sua nazione impermeabile. E secondo il suo sfidante Márki-Zay, questa è una delle scelte giuste di Orbán. Ma con gli ucraini, ha deciso di accogliere. Il flusso verso l’Ungheria è diminuito nelle ultime settimane, chi arriva dall’Ucraina preferisce il confine polacco, e verso Budapest si sono dirette poco più di trecentomila persone. Dell’accoglienza si occupano soprattutto la Caritas e altre associazioni di volontari che aiutano anche gli ucraini a proseguire il viaggio: in pochi rimangono in Ungheria. Orbán ha però approfittato dell’occasione per richiamare l’Ue. Ha mandato una lettera per dire che si aspetta un grandissimo afflusso di rifugiati in futuro e che l’Ue deve quindi sbloccare i soldi, anche quelli del Recovery fund.  Quei soldi  servono a  Orbán per molte cose: anche per continuare ad avere il sostegno degli ungheresi. 


  Budapest ha usato l’arrivo dei rifugiati dall’Ucraina per chiedere all’Ue di sbloccare i soldi del Recovery

 

La campagna elettorale. Secondo gli ultimi sondaggi, Fidesz è in testa nelle intenzioni di voto rispetto all’opposizione, ma il suo vantaggio, che era di otto punti, si sta un pochino riducendo. I cartelloni elettorali in giro per Budapest, che pure è una città che Fidesz non governa, sono soprattutto del partito di Orbán, anche se su alcuni è comparsa la famigerata “Z” dei putiniani: una scritta con lo spray per ricordare agli elettori con chi sta il premier quando dice di essere a capo dell’unico partito “per la pace” presente in Ungheria. La macchina della propaganda orbaniana, che si è ispirata a quella russa, dà grande risalto al messaggio di “pace e sicurezza” del premier: il discorso del 15 marzo di Orbán è stato riproposto sul primo canale della tv pubblica nove volte in un giorno. Anche gli investimenti online sono straordinariamente più grandi rispetto a quelli dell’opposizione che ha pochi minuti in tv per esprimersi e non riesce a emergere dal soffocamento mediatico di Fidesz. Márki-Zay, che guida la coalizione Uniti per l’Ungheria, deve mettere d’accordo socialisti, socialdemocratici, verdi, liberali e anche l’ex partito di estrema destra Jobbik. E in questa fase in cui bisogna spiegare agli ungheresi indottrinati al nazionalismo da molto tempo che la guerra di Putin all’Ucraina è un affare che li riguarda direttamente le divisioni si fanno sentire molto di più. Putin o Europa?, dice secco Márki-Zay, rispondendo che questo è il momento in cui finalmente la luce può vincere sull’oscurantismo autocratico. La guerra ha cambiato la campagna elettorale di tutti, anche di Orbán. Flora Garamvolgyi ci ha detto che prima dell’invasione era concentrata su questioni ideologiche come “proteggiamo i nostri figli dalla propaganda Lgbt”. Ma dall’invasione, Fidesz “afferma di poter mantenere gli ungheresi al sicuro e lontani dal conflitto. La linea  è ‘che l’Ungheria non dovrebbe essere coinvolta in questa guerra’”. L’opposizione si sta concentrando principalmente sui  legami del premier con la Russia.  Ma se la vicinanza di Orbán a Putin spaventa alcuni ungheresi che ricordano bene che cos’è stato il dominio sovietico, c’è anche chi è disposto a fidarsi di più di uno slogan sulla pace e la sicurezza piuttosto che rimettersi in un’altra guerra.

 

Orbán ha rosicchiato con calma la libertà di stampa nel suo paese e chi crede ancora nel valore dell’informazione ha cercato di ingegnarsi. A Hatvan, vicino Budapest, un giorno è comparso un camion rosso con una grande P. E’ la redazione ambulante di un canale YouTube che si chiama Partizan. L’ha fondato Gulyás Márton, un attore diventato attivista politico. Cerca di informare e di raccontare, vive delle donazioni di chi non vuole che l’Ungheria diventi come la Russia di Putin. Di chi alla Z simbolo dell’invasione di Mosca, preferisce la P e le lotte ambulanti contro i regimi.