Ramzan Kadyrov (LaPresse) 

piccola posta

I ceceni in campo, da una parte e dall'altra. Un delirio di identità e fanatismi

Adriano Sofri

I sopravvissuti alle due guerre, 1994-1996 e 1999-2009, sono diventati reciprocamente nemici mortali. In patria il grottesco tiranno Ramzan Kadyrov si vanta come pretoriano di Putin, in Ucraina gli esuli si trovano a sparare fianco a fianco con i neonazisti del battaglione Azov

La risacca che va scaricando in Ucraina tutti i debiti e i crediti restati in sospeso nelle guerre incivili contemporanee riserva un posto speciale alla diaspora cecena. Fieri e prodi nemici di sempre dell’impero russo prima, sovietico poi e di nuovo russo, i ceceni – un piccolo territorio nel Caucaso del nord, poco più di un milione di persone – hanno combattuto due guerre, 1994-1996 e 1999-2009, e vi hanno lasciato almeno 170 mila morti. Putin ci fece la sua fortuna. I vivi si sono dispersi, diventati reciprocamente nemici mortali. In patria, Ramzan Kadyrov, un grottesco tiranno di 45 anni, fa sfoggio di brutalità, vanta la sua gente come la guardia pretoriana di Putin, offre i suoi sgherri a far da prima fila dove la terra brucia – in Georgia, in Siria, in Iraq, ora in Ucraina – e in cambio si prende delle impudenti confidenze con lui: rapisce e sequestra oppositori o loro famigliari nel resto della Russia, fornisce sicari in Russia e all’estero agli assassinii di giornalisti e politici liberi, da Anna Politkovskaya a Boris Nemtsov, bracca e tortura i trasgressori sessuali. Nessuno dia lezioni di democrazia a Kadyrov: è stato rieletto a settembre col 99,7 per cento.

Pochi giorni fa Kadyrov (indossando stivaletti Prada “Monolith”, hanno riferito le cronache pertinenti) ha radunato una folla colossale di uniformi mimetiche e nere a Grozny per annunciarne la missione in Ucraina – “70, 100 mila!” – e ha ingiunto al presidente Zelensky di chiedere perdono a Putin per averlo offeso. Appena un anno e qualche parure di magliette separano Kadyrov da Zelensky. “Soldati universali”, li ha proclamati Kadyrov ignaro della citazione: “Gli irriducibili e universali combattenti della Repubblica cecena sormontano ogni ostacolo sul loro cammino e muovono come una valanga precipite: Mashallah! I leoni di Allah! Allah Akhbar”. Non dev’essere facile ai nazionalisti russi del Donbas e di Crimea trovarsi gomito a gomito, per così dire, con simili barbe e i loro trascorsi. Fotografie e video hanno mostrato combattenti ceceni in preghiera e in allenamento in una foresta ucraina, e la televisione cecena ha dato notizia di una visita di Kadyrov. Il terrore di cui i ceceni si compiacciono di fregiare la propria immagine si accompagna alla notizia di un mazzo di carte consegnato a ciascuno dei “cacciatori”, con le fotografie e i nomi dei bersagli da eliminare, da Zelensky in giù – un ricordo di America in Iraq. Le notizie sono difficili da controllare. Fonti ufficiali di Kyiv hanno detto che sabato, a Hostomel, poco a nord-est della capitale, un convoglio di 56 carri armati ceceni era stato distrutto dal fuoco ucraino, e che fra le centinaia di morti si contava il braccio destro di Kadyrov, Magomed Tushayev, generale capo del 141° reggimento motorizzato della Guardia nazionale cecena, e il suo vice, Anzor Bisaev. Kadyrov li ha dichiarati “più vivi che mai”. 

Ci sono, in Europa, almeno 160 mila esuli ceceni. Il destino del popolo che vantava fieramente di sapersi unire come un sol uomo di fronte alla potenza soverchiante di Mosca – “Allah ha fatto i ceceni per farli stare come un moscerino nell’occhio dei russi”, mi disse un loro anziano – ne ha tramutati tanti, in patria e in esilio, in mercenari a metà fra sé stessi e i datori di lavoro di turno, e li ha messi gli uni di fronte agli altri. In Siria e in Iraq erano loro a tenere la prima fila militare dell’Isis, disprezzando i loro stessi compagni d’armi e di violenze, incutendo rispetto e terrore: Al Shishani, il Ceceno, il loro capo dalla barba rossa. E loro coetanei e connazionali stavano sul fronte opposto, curdo, internazionale, in Siria, in Iraq. In Ucraina dalla parte del governo stanno due battaglioni, intitolati allo Shayikh Mansour, il leggendario eroe nazionale ceceno contro la zarina Caterina, e a Dzokhar Dudayev, il giovane generale dell’Armata Rossa che, prima di diventare il leader della Cecenia indipendente e d’essere assassinato, aveva protetto l’indipendenza degli stati baltici. Battaglioni formati da esuli ceceni in Ucraina, come Ali Bakaev, e rinforzati dall’avvento di altri che rispondono al richiamo dell’attempato e isolato leader del governo ceceno in esilio, Akhmed Zakayev. Anche a questi ceceni non dev’esser facile finire accanto al famigerato battaglione Azov, che le svastiche le ama davvero e si filma mentre unge col grasso di maiale i proiettili dedicati ai ceceni dell’altro fronte, che si scordino il loro paradiso.

In questo delirio delle identità, dei fanatismi e dei rinnegamenti, cerco ancora una conferma alla notizia che una figlia di Kadyrov abbia espresso pubblicamente la propria condanna della guerra. Kadyrov ha più figlie (e due mogli) e ne fa i suoi gioielli. Una è ministro della Cultura, una è a capo di una firma di fashion islamica che ha tenuto sfilate a Parigi. Una figlia di Kadyrov che contraddice il padre è un episodio sensazionale nella Cecenia in cui, com’è appena successo, i suoi scherani vanno a rapire la moglie ventiduenne di un notabile del regime fuggita in una casa rifugio in Dagestan per scampare alle botte del marito, ripudiata da suo padre e condannata al castigo “d’onore”. Ostentato, rivendicato, pubblicamente, nello scherno.

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