Murale con scena di battaglia in un sottopasso a Rostov, in Russia (Foto di Oleg Nikishin/Getty Images)

Una guerra preventiva contro l'occidente. Il ritorno dell'imperialismo russo

Francesco M. Cataluccio

L’Ucraina è solo un trampolino di lancio, la prima tappa del “ripristino dell’equilibrio del potere”. Il vero nemico, che la propaganda dipinge come materialista e privo di valori spirituali, è un altro

Nel suo ormai storico discorso del 21 febbraio, nel quale riconosceva l’indipendenza delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk, Vladimir Putin ha sorprendentemente parlato poco dell’Ucraina, se non per dire che “è parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale” e poi sostenere che come entità nazionale non esiste e che fu un “errore di Lenin e dei suoi compagni rivoluzionari che portarono avanti questa idea in modo che risultò estremamente duro per la Russia”. Ha invece parlato soprattutto degli Stati Uniti, della Nato e dell’occidente: “egemone”, “impero di menzogne”, “macchina da guerra che si avvicina ai nostri confini”, “becero perseguimento di obiettivi”.

  
Putin non ha nascosto affatto che questa è una guerra preventiva. L’avversario è l’occidente: che deve ritirarsi, sparire dalla sfera d’influenza russa. L’Ucraina è solo un trampolino di lancio, la prima tappa del “ripristino dell’equilibrio del potere”, l’applicazione delle “richieste legittime”. Putin vuole la “smilitarizzazione e denazificazione” (?!) dell’Ucraina. Sta puntando a  mettere un governo fantoccio filorusso a Kyiv, come era quello corrotto di Janukovic e del suo entourage, che fu abbattuto dalla rivoluzione di piazza Majdan nell’aprile 2014. Quella fu una “rivoluzione orientata verso l’Europa”, contrapposta all’Unione doganale con la Russia.

  
La cosa più scioccante nel discorso di Putin è stata la minaccia diretta a tutti coloro che avrebbero aiutato l’Ucraina invasa: “Chiunque cerchi di interferire deve fare i conti con conseguenze che non si sono mai viste prima nella storia (…) Siamo pronti per qualsiasi situazione. Le decisioni sono state prese”. 

  
Il giornalista polacco Pawel Reszka, del settimanale Polityka, usa amaramente una metafora forte ma efficace: “Mi sono subito immaginato un teppista muscoloso che stuprava una donna dietro il muro. I vicini sentono cosa sta succedendo e gridano: ‘Cosa stai facendo?’ e lui non si ferma e minaccia: ‘Vaffanculo, o ti uccido’. Forse fa paura morire per una qualche vicina. L’unica cosa è che la sera, a cena, dovrete razionalizzarlo in qualche modo. Per spiegarvi la vostra inazione, e poter addormentarvi tranquillamente. Anche la paura. I banditi vengono fermati solo con la forza. Ma una benda sugli occhi li rende più sopportabili. Così è stato con Hitler, così è con Putin. Cecenia, Georgia, Crimea, la rivolta nel Donbass. L’assassinio di giornalisti, politici, squadre di assassini inviati all’estero. Questo non ci ha impedito di continuare  a ‘goderci’ la vita, facendo finta di niente. Tutto come se nulla fosse. E si è continuato a giocare anche la Premier League di calcio, della quale Gazprom è lo sponsor principale (…). Non era di buon gusto ricordare la Crimea, il barbaro assassinio dell’oppositore Nemtsov o della coraggiosa giornalista Politkovskaja. Ma oggi – anche da sotto le palpebre chiuse – si vede un mostro”. 

 

Il nazionalismo russo è stato colpito violentemente nel 1989: l’impero si è sfaldato (“la più grande catastrofe del XX secolo”, l’ha definita Putin). Ora, un pezzo alla volta, si cerca di ricostruire l’Impero degli oligarchi

 
Questo mostro non si chiama Putin. Il mostro si chiama purtroppo Russia. Oggi torna fuori prepotentemente la sua anima imperialista. Putin ha avuto il “merito” di smascherare un equivoco andato avanti per settant’anni: dopo la creatività libertaria rivoluzionaria, e addirittura il sogno di una “rivoluzione mondiale”, proclamato da Leon Trotskij, con l’ascesa al potere di Stalin l’Unione sovietica è diventata la copertura della Russia e dei suoi interessi. Milioni di persone nel mondo si illusero di servire la causa del comunismo, mentre facevano il gioco della Russia (anche se, in diversi casi, come in Italia, hanno fatto fare conquiste significative e difeso i diritti dei lavoratori). Dovettero ingoiare bocconi amarissimi come la condotta della guerra di Spagna, il patto Molotov-Ribbentrop, la spartizione del mondo in sfere di influenza, le sanguinose repressioni come il 1956 ungherese. 

 
Il nazionalismo russo è stato colpito violentemente nel 1989: l’impero si è sfaldato (“la più grande catastrofe del XX secolo”, l’ha definita Putin). Ora, un pezzo alla volta, si cerca di ricostruire l’Impero degli oligarchi russi che sfruttano le immense ricchezze di materie prime e non restituiscono niente alla popolazione, se non il mito di un ritorno alla passata grandezza, e al “rispetto” (una vera ossessione!) internazionale. Questo forte desiderio di grandezza imperiale va di pari passo con l’avversione verso l’occidente, considerato dalla propaganda (che ingaggia filosofi e teologi di quarta categoria) materialista e privo di valori spirituali. La Russia vuole rappresentare allo stesso tempo la cristianità ortodossa e la forza autoritaria dell’Oriente. 

  
Nel 1986 il poeta premio Nobel Iosif Brodskij pubblicava sul New Yorker un intenso e sconsolato saggio narrativo, Fuga da Bisanzio (Adelphi, 1987), dove sosteneva amaramente: “La mia terra natale non è forse diventata un impero ottomano – per estensione, per potenza militare, per la minaccia che rappresenta agli occhi del mondo occidentale? Non siamo arrivati sotto le mura di Vienna?”. Attraverso il Mar Nero (la Crimea, che Putin si è ripreso nel 2014), prima il cristianesimo bizantino poi l’islam turco hanno imbevuto il principato di Moscovia di autoritarismo militarizzato e crudeltà asiatica. A distanza di sicurezza da ogni rinascimento o illuminismo occidentale. Bisanzio-Istanbul, la seconda Roma. Mosca, la terza Roma: “E’ sufficiente dare un’occhiata al dizionario e scoprire che katorga (lavoro forzato) è un’altra parola turca (…). Un fatto è certo: a qualunque estremo possa arrivare la nostra idealizzazione dell’Oriente, non riusciremo mai ad attribuirgli la minima parvenza di democrazia”. 

  
Di questa aggressiva ostilità orientale verso l’occidente ne sono esempio i versi del grande poeta Aleksandr Block (1880-1921), l’autore del bellissimo canto mistico-rivoluzionario I Dodici (1918), morto prematuramente forse a causa della carestia del 1921 provocata dalla guerra civile. La sua poesia Gli Sciti (che porta la data del 30 gennaio 1918) val la pena di essere citata (nella bella traduzione di Paolo Statuti) per la sua sorprendente attualità: 

 
Voi – milioni. Noi – nugoli agguerriti.
Fateci guerra, o ardimentosi!
Sì, noi – gli asiatici! Sì, noi – gli Sciti,
Con gli occhi a mandorla e bramosi!
Noi – solo un’ora, voi secoli aveste.
Noi, servi docili e ubbidienti,
Fummo lo scudo tra le razze avverse
Dell’Europa e delle barbare genti!
(…) Voi per centenni guardavate a Oriente,
Ammassando e fondendo i nostri ori,
E aspettavate il momento conveniente
Per puntarci contro i vostri cannoni!
E’ ora. Batte le ali la sventura,
E ogni giorno aumenta l’offesa,
E il momento verrà in cui nessuna
Traccia di Paestum resterà illesa!
(…) Anche noi conosciamo la slealtà!
La vostra progenie sarà malsana
E per secoli interi vi maledirà!
Per boscaglie e boschi ci scanseremo
Davanti all’Europa bella e distinta,
E rivolti ad essa noi mostreremo
Il nostro sorriso e l’asiatica grinta!

 
E’ poi sorprendente come scrittori e poeti russi di grande valore abbiano verso l’antica madre Ucraina un’avversione tutta particolare, come se essa rappresentasse il continuo pericolo di una tentazione filooccidentale. Putin nei suoi discorsi ama citare spesso Aleksandr Solženicyn: “I nazionalisti ucraini abbattono i monumenti a Lenin, ma i confini tracciati da lui li difendono” (questo da una lettera di Solženicyn a Svyatoslav Karavanskij del 27 ottobre 1990). In quel periodo in cui l’Ucraina (che, non va mai dimenticato, negli anni Trenta ebbe più di 5 milioni di morti a causa dei sovietici!) stava riacquistando l’indipendenza, persino Josif Brodskij sentì purtroppo il bisogno di scrivere una poesia incredibilmente virulenta, Sull’indipendenza dell’Ucraina, nella quale attaccava violentemente il “khokhly” (termine sprezzante usato dai russi contro gli ucraini). Molti hanno messo in dubbio la sua autenticità, ma è stato filmato mentre la recitava al Jewish Center di Palo Alto, il 30 ottobre 1992, di fronte a un numeroso pubblico. 

  

Un saggio di Brodskij, una poesia di Aleksandr Block di sorprendente attualità. Nei giorni scorsi il giornale russo Novaja Gazeta è uscito in edizione bilingue, russo e ucraino: “Proviamo dolore e vergogna”, hanno scritto 

 
Nei giorni scorsi il giornale russo Novaja Gazeta è uscito in edizione bilingue, russo e ucraino: “Proviamo dolore e vergogna”, hanno scritto. In rete sta diventando virale un appello agli intellettuali fatto da Lev Ponomaryov, attivista politico di vecchia data e direttore esecutivo del movimento “Per i diritti umani” nonché membro del Consiglio politico federale di Solidarnost. Su Change.org ha raccolto 150 mila adesioni in poche ore: “La retorica ufficiale russa afferma che ciò viene fatto per ‘autodifesa’. Ma la storia non può essere ingannata. L’incendio del Reichstag è stato smascherato e oggi le scuse non reggono: tutto è ovvio sin dall’inizio. Noi, sostenitori della pace, agiamo per salvare la vita dei cittadini di Russia e Ucraina, al fine di fermare lo scoppio della guerra e impedire che si trasformi in un conflitto di scala planetaria. (…) Facciamo appello a tutte le persone sane in Russia, dalle cui azioni e parole dipende qualcosa. Entrate a far parte del movimento contro la guerra, opponetevi alla guerra. Fate questo almeno per mostrare al mondo intero che in Russia c’erano, ci sono e ci saranno persone che non accettano le meschinità perpetrate dalle autorità, che hanno trasformato lo stesso stato e i popoli della Russia in uno strumento dei loro crimini”.
Questo è ciò che ci fa ricordare che ci sono tanti russi che non sono stati ingannati.

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