A sinistra Aslan Maskhadov, leader dei separatisti ceceni (foto LaPresse)

La resistenza cecena

Adriano Sofri

Nerbo e testa delle azioni militari del sedicente Califfato, la cronaca è tutt’altro che coerente

Il 19 agosto un giovane ha assalito e ferito a coltellate otto persone nelle strade di Surkut, una città della Siberia occidentale, ed è stato ucciso dalla polizia. Una rivendicazione dell’Isis lo ha definito “un nostro soldato”, le autorità russe dubitano ufficialmente della sua ispirazione terroristica, altri lo descrivono come figlio, nemmeno ventenne, di un militante daghestano. Come che sia, l’episodio vale a ricordare che la Russia è fra i paesi più minacciati dal famigerato ritorno dei foreign fighters, in particolare dei caucasici. Come si sa, i ceceni sono stati il nerbo e, con Al Shishani, la testa delle azioni militari del sedicente Califfato. Poche sorti si mostrano oggi tragiche come quelle degli eredi delle due guerre cecene contro la Russia degli anni Novanta del secolo scorso. Si pretendeva allora che i ceceni fossero irriducibili a qualunque disciplina gregaria e fieri della propria personale indipendenza, fino a che il nemico russo non li richiamasse, come un uomo solo, alla resistenza. Dopo di allora la cronaca porta periodicamente alla ribalta il loro nome nelle circostanze più dolorosamente paradossali.

 

 

Dopo essere stati la prima fila dell’invasione sovietica in Afghanistan i combattenti ceceni rientrati in patria furono ancora una volta nemici giurati di Mosca in nome di un patriottismo del Caucaso del nord prima, sfiorando per un breve tempo l’indipendenza, poi sempre più in nome dell’islam. Perduto, a un costo micidiale, lo scontro militare con la “nuova” Russia, una loro fazione, con Khadirov padre e figlio, si acconciò a diventare, insieme servile e riottosa, satellite della Russia di Putin mentre un’altra parte continuava una guerriglia interna e soprattutto portava nella diaspora islamista le proprie esaltate qualità militari, concentrandole alla fine nello Stato islamico. Intanto truppe della Cecenia di Khadirov si offrivano al servizio delle imprese militari esterne russe, come sul fronte ucraino.

 

Vita e morte di Anna Politkovskaja stanno al crocevia finale fra queste due epoche cecene. Si chiamano in causa sicari ceceni nelle prudenti indagini contro gli assassinii di dissidenti russi. Quanto al destino dei singoli ai quattro angoli del mondo, la cronaca è altrettanto costernante. C’erano degli adolescenti ceceni diventati norvegesi fra i ragazzi assaltati, e sterminati in tanti, da Breivik nel 2011 a Utøya, e uno di loro, un quindicenne, tentò di opporglisi a sassate, perché suo padre, disse poi, gli aveva insegnato a opporsi coraggiosamente alla sopraffazione. Erano due fratelli ceceni gli attentatori che nel 2013 uccisero tre persone alla maratona di Boston, e un poliziotto pochi giorni dopo: uno fu ucciso a sua volta dalla polizia, l’altro è in carcere condannato a morte in primo grado, ha detto di aver creduto che gli Stati Uniti conducessero una crociata mondiale contro l’islam, ha detto ai superstiti e ai feriti di essere pentito “per le vite che ho distrutto, per la sofferenza che vi ho causato, per il danno che vi ho provocato, un danno irreparabile. Prego per il vostro conforto, per la vostra guarigione”.

 

È stato un giovane ceceno, professionista della lotta, ad aggredire, con due connazionali, e a uccidere Niccolò Ciatti, un suo quasi coetaneo fiorentino, in una discoteca a Lloret de Mar, Costa Brava, alla vigilia di ferragosto. All’avvento del sedicente Califfato e della sua infame persecuzione della minoranza yazida venne fatto di pensare che nello spirito della prima resistenza antisovietica i ceceni avrebbero solidarizzato col popolo yazida e offerto epicamente il loro braccio alla sua difesa: è successo il contrario. È successo più volte in Germania che rifugiati yazidi e rifugiati ceceni siano venuti sanguinosamente alle mani, negli ultimi anni. Anche così bisognerà fare la storia a noi contemporanea, chi verrà poi.

Di più su questi argomenti: