Matteo Salvini (foto LaPresse)

Il punto non è Altaforte, ma la combinazione fra CasaPound e Salvini

Adriano Sofri

La discussione sul fascismo ci distrae da una domanda: un politico della Dc avrebbe pubblicato la sua biografia con una casa editrice di Ordine Nuovo?

C’è qualcosa che sfugge nella discussione sui fascismi, sfugge a me, o ad altri. Si raccomanda di non impiegare alla leggera la nozione, fuori dal suo contesto storico: giusto, troppo giusto. Si ricorda – lo fa uno storico autorevole come Emilio Gentile – che il neofascismo nell’Italia del Dopoguerra è sempre esistito, in particolare con un partito come l’Msi, dalla rilevante presenza parlamentare, la cui esistenza si concluse, o si mutò, con l’ingresso nel governo nazionale. Esistettero anche, altroché, formazioni extraparlamentari fasciste o francamente naziste il cui rapporto con membri e apparati del potere statale fu strettissimo, nel cui conto stanno le stragi e i colpi di stato tentati, fra ridicolo (i colpi di stato mancati sono sempre ridicoli) e istruttivo: istruttivo fu per esempio l’ingresso notturno al Viminale.

 

 

Si dirà che la minaccia oggi non viene dal fascismo né da quelle sue appendici patologiche che la durata endemica fa apparire fisiologiche. Qualcuno dirà che deve preoccupare di più l’ingresso diurno al Viminale. In tutto questo discernere, la cosa che (mi) sfugge è questa: la novità, per chiamarla così, e comunque il tratto distintivo della condizione attuale non sta nella casa editrice Altaforte e nel suo titolare fieramente fascista, bensì nel fatto che l’uomo forte del governo italiano abbia pubblicato il suo libro-intervista a una giornalista da quella casa editrice. Il libro ha avuto la sorte di uscire, ad abbondanza, all’indomani del 25 aprile negato, rinnegato, da Salvini. Anche questo è “sempre successo”? Un uomo forte democristiano avrebbe tranquillamente pubblicato la propria biografia presso una casa editrice di Ordine Nuovo o di Avanguardia Nazionale o di Franco Freda? Hanno fatto anche di peggio, gli uomini forti democristiani, lo so: ma di nascosto. Successe che uno di loro, Tambroni, provasse la via clamorosa di un governo coi neofascisti, ma fu spazzato via, lui e loro, da certi genovesi che si ricordavano e altri genovesi che impararono subito. La discussione sul Salone di Torino è una mera distrazione se si incentra sullo stand di un gruppo fascista: al suo centro sta la combinazione fra il gruppo fascista e un vicepresidente del governo e titolare diurno e notturno del Viminale. Questa, mi pare, è la cosa che sfugge, e andrebbe riacciuffata in tempo.

 

  

Ho una postilla. La stimolante riscoperta del concetto di percezione si è presto e spesso evoluta in un alibi all’opportunismo politico, in tutti i campi. I rom percepiti eccetera. C’è un unico argomento sul quale la percezione viene metodicamente ignorata: il fascismo percepito. Ai suoi percettori si raccomanda di stare sereni e leggere tutto De Felice, e poi se ne riparla. Penso che bisogni lavorarci ancora, alla distanza fra i fatti e la loro percezione. Salvini – lo nomino troppo? Ma no, non lo sopravvaluto, Andrea Camilleri ha detto la cosa definitiva, avrebbe potuto essere un Federale – ha appena offerto due esempi smaglianti del riaggiustamento delle percezioni. Siccome non rimpatria i 500 o 600 mila stranieri irregolari che aveva contato prima delle elezioni, li ha ricontati ed è venuto un totale di 90 mila. Siccome si spara per le strade e non aveva fatto altro che allarmare la gente sulla sicurezza e promettere una scorta a ciascun italiano qualunque (bastava toglierla a Saviano) ora ha ricontato i crimini ed è venuto un totale rassicurante: violenze sessuali un terzo in meno, i furti il 21 per cento in meno, e così via. Morale: affidiamoci alle percezioni di Salvini, e saremo fuori dalla crisi. Da tutto. Saremo fuori.

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