Nicola Lagioia (Foto LaPresse)

Lagioia del Salone

Marianna Rizzini

I giorni di passione del direttore dell’evento librario torinese, antifascista à la page. Assalito dalla realtà e dalle polemiche

Il Salone di Torino, lo stand, i fascisti, gli antifascisti, la politica lasciata fuori dalla porta che rientra dalla finestra e ti si rovescia addosso. Le defezioni e i rientri e le responsabilità e gli amici e i nemici e le parrocchie e le non parrocchie e i social network e il gran polverone. E poi, alla fine (che è anche l’inizio), il sipario che si alza e lui, il direttore dell’evento librario, Nicola Lagioia – scrittore, premio Strega, editor, editorialista, direttore di collane editoriali, giornalista radiofonico, selezionatore di talenti, libri e film – lui, dunque, Lagioia, che dice la frase rivelatrice dello spirito del tempo. Lo strano tempo di oggi: “La vicenda si è spostata da una polemica culturale a una simbolica”. Ed è chiaro che la vicenda è quella della casa editrice di estrema destra Altaforte, dapprima ammessa al Salone con uno stand e un libro intervista su Matteo Salvini e poi esclusa, dopo una girandola di post e un annuncio di dimissioni (di Christian Raimo, scrittore e collaboratore di Lagioia al Salone nonché amico storico di Lagioia nonché assessore alla Cultura al Terzo municipio di Roma) e dopo la denuncia di Altaforte per apologia di fascismo, con esposto del sindaco di Torino Chiara Appendino e del governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, sulle base delle parole dette dal fondatore della casa editrice, Francesco Polacchi alla Zanzara (Radio24): “Sono un militante di CasaPound e sono fascista, l’antifascismo è il vero male di questo paese”.

 

 

Ed è chiaro anche che il caso, scoppiando sotto il titolo di “antifascismo” contro “fascismo”, pone altri interrogativi, per esempio sul grado di responsabilità del Salone (non era Lagioia, ha spiegato Lagioia, ad avere voce in capitolo sulle domande di partecipazione, ma non tutti si sono accontentati di queste parole). E pone interrogativi, il caso, pure sulla salute della democrazia italiana, gravata com’è ogni giorno da semplificazioni mediatiche, a volte pericolose quanto le idee che si vorrebbero combattere. E se MicroMega esulta (“La casa editrice legata a CasaPound è stata esclusa dal Salone del libro di Torino. Hanno vinto i pochissimi che con intransigenza antifascista avevano detto ‘NO!’ rifiutando quella logica del ‘male minore’ che, a forza di ‘non demonizzare per non fargli un favore’, prepara sempre i mali maggiori”), c’è chi, come Giordano Tedoldi, scrittore e giornalista che ha lavorato con Lagioia, non manca di definire, su Facebook, “antifascismo isterico” quello di Raimo, il quasi alter ego di Lagioia (i due sono cresciuti in modo parallelo ma opposto nello stesso ambiente minimum fax-Einaudi). Alter ego che Lagioia non aveva voluto e potuto criticare troppo per l’eccesso, essendo l’eccesso comunque riferito al tema “fascismo-antifascismo” (non restava che dissociarsi felpatamente e, secondo alcuni osservatori, “democristianamente”, dall’eccesso medesimo).

  

E vai a pensare che a Torino, quattro anni dopo, la questione si sarebbe riproposta, ma stavolta con il vero carico da dodici.

Era accaduto infatti che l’eccessivo Raimo, anche noto, nell’ultimo periodo, per le polemiche internettiane con l’ex Iena grillina Dino Giarrusso, con l’incontenibilità spesso mostrata (e spesso cancellata) sui social, aveva scritto il post da cui, in pratica, tutto il caso era nato, compresa la defezione dal Salone di Wu Ming in nome del “mai accanto ai fascisti” e compresa la defezione poi ritirata di Zerocalcare. Aveva cioè scritto il post del patatrac diplomatico e della chiamata all’antifascismo militante, il Raimo che, come Lagioia, ama definirsi semplicemente scrittore (anche se è collettore di altre avventure culturali e di più regolari incarichi nell’ambito giornalistico-editoriale) ma che, a differenza di Lagioia, non è considerato un giovane saggio dall’establishment intellettuale.

 

Aveva scritto questo, Raimo: che “i neofascisti si stanno organizzando” , che “le idee neofasciste” e sovraniste “sono la base per l’ideologia della forza maggioritaria di governo” e che alcuni giornalisti “tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito e formano think tank organici con il governo”, indicando anche per nome Alessandro Giuli (autore televisivo, editorialista, già condirettore di questo giornale e direttore di Tempi), di Francesco Borgonovo (vicedirettore di La Verità), di Adriano Scianca, responsabile culturale di CasaPound Italia, e dell’editore Francesco Giubilei, venendo poi accusato da più parti, a destra come a sinistra, di compilare “liste di proscrizione” incompatibili con lo scambio di idee democratico (fossero anche le idee indigeste di Polacchi) e soprattutto con la missione del Salone del libro, luogo per definizione di accoglimento e di non-censura.

 

Il maestro Fofi, l’intervista a Busi, il gatto e la moglie, demiurga estetica dell’intellettuale post pasoliniano (nel look)

Ed era a quel punto che Lagioia era chiamato a diventare altro da Lagioia – altro cioè dallo scrittore nato a Bari, emigrato a Roma e a Roma diventato una voce per così dire organica alla sinistra lungo l’asse Repubblica-Rai3-Esquilino e prima ancora Ponte Milvio, quartiere dove aveva sede la casa editrice minimum fax dove Lagioia ha mosso i primi passi editoriali: una voce che poteva sempre e comunque permettersi, esattamente come quella del più incontenibile e meno organico Raimo, di dire cose engagé, pur senza avere il carico della baracca. E però al Salone la baracca c’è: istituzione culturale da difendere e proteggere dalle accuse di pressapochismo. Ma anche da quelle di collaborazionismo con i fascisti veri e presunti. Ma anche da quelle di non liberalismo verso le idee, seppur sgradite, dei simpatizzanti di Casa Pound.

 

 

E così, tra un Raimo, un fascista e un Salone di Torino, Lagioia si trovava a dover dirimere una questione molto più complicata della pur complicata sarabanda on the road del romanzo che ha segnato il suo successo, quell’“Occidente per principianti” (ed. Einaudi) in cui i protagonisti si mettevano sulle tracce del primo amore di Rodolfo Valentino. Non poteva dunque, l’ormai istituzionale anche se post-pasoliniano (nel look) Lagioia, far finta di nulla di fronte alle parole non proprio istituzionali dello strabordante Raimo. E però Lagioia, dovendo intervenire dopo il post dell’amico, non poteva neanche dire “ragazzi, qui c’è stato un errore”, e appellarsi al tema di quest’anno del Salone (“Il gioco del mondo”: tema peraltro completamente offuscato, alla vigilia, dalla polemica e dalla contropolemica su neofascismo e antifascismo). E allora arrivava il suo, di post: “Il problema ovviamente non è la libertà di espressione”, scriveva Lagioia, ma il “che cosa si può muovere intorno a certe idee che non sono solo agli antipodi dell’impostazione culturale del Salone di quest’anno, ma la cui messa in pratica turberebbe l’ordine democratico offendendo la Costituzione”.

 

Scrittore premio Strega del giro minimum fax-Einaudi-Esquilino, ora alle prese con la responsabilità della baracca 

 E pazienza se, in un precedente post, si era preventivamente dissociato da qualsiasi bailamme politico, Lagioia, ormai emotivamente lontano dalla Roma gialloverde anche se non dall’enclave democratica e democraticamente corretta del giro Esquilino-Pigneto in cui Lagioia si è fatto Lagioia (c’è chi parla di “inner circle” indicando i suoi amici e scrittori Elena Stancanelli e Francesco Pacifico, oltre a Giordano Meacci e Francesca Serafini, sceneggiatori del film tv “Fabrizio De André Principe Libero”). E, dopo mesi di vita torinese con la gatta Venerdì e la moglie Chiara (è lei, dicono gli amici, la demiurga estetica di Nicola, che ormai è un tutt’uno con la camicia vagamente dandy a colori sparati), Lagioia si era risolto, con i suoi collaboratori, e con grande stupore di alcuni editori (vedi Laterza) ad annunciare l’esclusione dal Salone dei libri politici: scritti da politici, cioè, ma anche riguardanti un partito politico in particolare.

 

Nemesi voleva invece che a Torino giungesse, via Altaforte, non soltanto l’ombra del Truce (Matteo Salvini), ma pure, quel che è peggio, lo spauracchio del fascismo, al punto che lo scrittore Sandro Veronesi, a caso scoppiato, pur non essendo d’accordo con il boicottaggio dell’appuntamento librario, sottolineava sul Corriere della Sera che spettava “alla giustizia esprimersi sulla destra estrema… sulla base della XII Disposizione della Costituzione italiana, detta ‘transitoria’ ma ormai anche ‘finale’, che recita: ‘È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. E Concita De Gregorio, firma di Repubblica, annunciava così la propria presenza: “Vado perché ho capito che qualcuno ha comparato uno spazio, poteva essere un marchio di parmigiano, di aspirapolveri, e invece era un editore fascista” e “ne deduco che serve un criterio di ammissione, mercantile, che al momento non esiste”, “vado dunque anche per gratitudine e rispetto del lavoro di chi organizza il Salone, di chi lo ha salvato e rilanciato in questi anni pericolosi e difficili”.

  

Quando Lagioia correggeva “i raccomandati” in Rai. E quando deve riequilibrare gli eccessi degli Zerocalcare a lungo coccolati 

E insomma, per il gran lavoratore Lagioia – che faceva a quel punto appello all’unità del mondo editoria-culturale, attirandosi subito il soprannome di “Ciriaco De Mita” del Salone – erano lontani i tempi in cui, al massimo, doveva difendere l’amico Raimo dall’accusa di ridondanza polemica per aver mostrato, in tv, su Rete 4, a Maurizio Belpietro, cartelli con sopra scritto “fate una televisione razzista e islamofoba” o “non c’avete un altro servizio sui negri cattivi?”. Lontanissimi parevano pure i giorni in cui, fresco vincitore del Premio Strega con il libro “La ferocia”, Lagioia si poteva aggirare con Chiara elegantissima e di rosso vestita nel Ninfeo di Villa Giulia, a stringere mani e a sorridere senza dover riequilbrare parole e gesti per salvare la suddetta baracca dell’istituzione. Per non dire dei giorni in cui, pur nelle sacche della querelle editoriale tra piazza libraria torinese e piazza libraria milanese, si potevano ben rimembrare gli esordi (quando Lagioia doveva correggere gli errori di “qualche raccomandato Rai”, come ha spesso raccontato agli amici) e le giornate passate con il maestro Fofi che parlava di Matteo Garrone quando ancora Garrone non era Garrone. Fatto sta che oggi Lagioia non può tornare indietro, a quando poteva cullarsi nella sensazione di non dover rendere conto agli Zerocalcare (per dire degli esponenti dell’area “a sinistra della sinistra” – area a lungo coccolata, ma senza dover pagare pegno istituzionale, nell’ambiente contiguo a quello di Raimo e Lagioia) né di dover rispondere ai potenziali nemici, a parte il nemico-ex amico dichiarato, lo scrittore e giornalista Massimiliano Parente, che a più riprese ha criticato la Lagioia come membro “della cosiddetta controcultura”: “Quelli che… i premi letterari fanno schifo fino a quando non li vinco io”, come scriveva sul Giornale nel luglio scorso. Né traspariva dal volto teso del direttore del Salone, all’apertura del Salone, la serenità da intellettuale impegnato, ma anche letteralmente spensierato (cioè senza i grattacapi che il Lagioia uomo di potere culturale ha in questi giorni).

 

L’amico Raimo, alter ego polemicamente ridondante di Lagioia. Stesso percorso, stesso ambiente, diverso risultato 

Sereno appariva infatti Lagioia mentre intervistava Aldo Busi per Internazionale, nel maggio del 2015, quando poteva ben riflettere, nel corso dell’intervista, sul fatto che “per essere di destra basta essere un onesto trucido nella biosintesi che si accetta per quel che è, tipo i leghisti e i berlusconiani e i grillini, o, se di sinistra millantata, tipo i dalemiani e i bertinottiani e i renziani, basta essere fatalista da Realpolitik come tutti gli ipocriti mediamente istruiti, mentre per essere di sinistra senza fallo occorre ben di più di un onesto: occorre un martire, un eroe, un santo della laicità più anticlericale che esista, uno rivoltato nel suo stesso Dna, un pirla felicemente indefesso, un autoflagellatore che gode troppo per rinunciare ai suoi ideali messi in pratica in cambio dei banali e sinistri piaceri degli ambidestri. Io sono di sinistra. E visceralmente antifascista. E anticomunista, ci mancherebbe”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.