Il padre che sarò

Marco Marsullo

Mi manca il figlio che non ho, e l’ho messo in un libro. Gli racconterò anche i miei inferni

A volte sento la mancanza di mio figlio, che non è ancora nato e non è ancora racchiuso in nessun grembo. Ho trentaquattro anni e no, non l’ho fatto, un bambino. So che non sono in ritardo, anzi sono in linea con il trend del paese, e soprattutto sono un uomo. Gli uomini, i figli, possono farli anche a cinquant’anni, si dice sempre.

 

Il fatto è che io mi sento proprio tagliato per fare il padre, me lo sento nella pancia. Ed è con la pancia – mi hanno detto un giorno – che si fanno i figli, mica con la testa. Probabilmente la mancanza di mio figlio, che non è ancora nato e non è ancora racchiuso in nessun grembo, arriva da molto lontano. Da quando, acquattato dietro una porta, ascoltavo i litigi dei miei genitori e pregavo che non divorziassero, spezzando l’incantesimo, distruggendo il nido fuori dal quale credevo non sarei riuscito a sopravvivere.

 

Con il tempo, una certa solitudine malinconica che mi sono cucito addosso come un vestito di carnevale, e tanti amici, ho imparato a farne a meno. Temevo mi sarebbe mancata l’aria e invece ho imparato a respirare sott’acqua, come i pesci. In ogni bolla che usciva dalla mia bocca e fluttuava verso la superficie ho infilato i pensieri belli, quelli che volevo salvare, guidare verso la luce, il mondo esterno. In una di quelle bolle ci sei tu, figlio mio, che non sei ancora nato e non sei ancora racchiuso in nessun grembo. Ti ho messo al sicuro dal ventre buio del mare, sul fondo del quale finiscono le carcasse delle esistenze sbagliate, quei dolori che non possono essere smontati né aggiustati, possono arrugginire e basta. Io, che ho dovuto imparare a fare da padre a mio padre, e pure a mia madre, ho sempre sperato che quando avessi avuto una famiglia mia, quando ne fossi stato attore e non mero spettatore, i pezzi del mio destino si sarebbero incastrati in modo da proteggerla da ogni intemperia, da ogni crepa che il tempo avesse aperto. 

 

 

Una famiglia mia, però, lo sai, non l’ho fatta. Tutto quel che ho fatto è stato riempire le pagine con le storie. Ho scelto i romanzi per difendermi, è stata la scrittura a darmi una direzione, un posto nel mondo. Studente universitario fuori luogo, più che fuori sede, frequentavo la facoltà di Legge solo per compiacere chi mi aveva generato, due brillanti e stimati medici, ma senza progetti sul futuro. Ci ho messo un po’ a capire che avevo altri desideri. Ancora di più, a trovare il coraggio di dar loro voce. Quando l’ho fatto, le storie sono diventate la mia carta d’identità. Mi hanno permesso di vivere in mondi alternativi dove la tristezza poteva essere tenuta a bada, dove l’assurdo diventava comico, e faceva ridere anche gli altri, dove era possibile smettere di respirare sott’acqua, tornare a galla e buttare fuori la testa, ingoiare di nuovo l’aria. E’ nelle mie storie che ho allevato un figlio. Proprio lui, quello che non è ancora nato e non è ancora racchiuso in nessun grembo: mi mancava così tanto che me lo sono inventato. Abita nel mio ultimo romanzo, L’anno in cui imparai a leggere. Si chiama Lorenzo, ha quattro anni e, quando sua madre parte per una tournée, lui comincia a vivere con il fidanzato di lei, Niccolò, uno scrittore in crisi creativa. E’ la storia di una paternità senza corredo genetico, anche se Lorenzo, giorno dopo giorno, finisce per assomigliare sempre più a Niccolò. E’ anche una storia di padri naturali che non sono pronti, non sono maturi, non sono all’altezza o scappano da qualcosa, nemmeno sanno più da cosa. Ma un giorno, fissando il proprio figlio mentre dorme, sentono all’improvviso di aver raggiunto casa.

 

Non puoi scegliere tuo padre, né chi sarà tuo figlio. Però una cosa puoi sceglierla: che uomo essere. Con ogni grammo di coraggio, le rinunce necessarie, a volte penose, che dovrai tacere a chi hai messo al mondo, forse anche a te stesso. Altrimenti, l’amore dov’è? Un giorno, figlio mio, che non sei ancora nato e non sei ancora racchiuso in nessun grembo, ti dirò che ragazzo sono stato, ti racconterò gli inferni che ho attraversato, le pelli che ho abitato, i silenzi di casa mia, che mi hanno fatto fischiare le orecchie fino a impazzire. Non lo farò con l’arma che ho imbracciato per difendermi finora, ossia le parole, ma con il fracasso di una cucina piena di piatti sporchi dopo una cena, uno stereo sempre acceso a riempire l’appartamento di musica, una partita di pallone in corridoio. Lo farò ascoltando le cose che mi racconterai tu, camminando per strada accanto a me in un pomeriggio qualunque, se vorrai confessarmi qualcosa della tua vita. Se il tuo cuore avrà un peso di cui liberarsi e sentirai che io, tuo padre, sono la persona giusta cui affidarlo per un po’. Come certi zaini che si tolgono dalle schiene dei figli, all’uscita della scuola, nel tragitto verso casa.

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