Manuel Bortuzzo (foto LaPresse)

Il miracolo della normalità

Marianna Rizzini

La vita stravolta e non una parola di troppo (nell’èra delle parole a vanvera). Come ci salva Manuel Bortuzzo

“Ce la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco” (da “La strada” di Cormac McCarthy).

 


 

Ci sono un padre e un figlio, in questa storia, ma attorno non c’è il panorama post apocalisse nucleare de “La strada” di Cormac McCarthy, romanzo meraviglioso e terrificante in cui un padre e un figlio devono spingere senza quasi più speranza un carrello mezzo vuoto nel nulla e verso il nulla, tra ex città spettrali, edifici abbandonati, scheletri di case e di persone, predoni cannibali, lotte per il cibo, mari senza vita e cielo senza sole. O forse l’apocalisse è comunque qui, anche se è metaforica e più sottile, un annientamento prima di tutto verbale nell’Italia incattivita e rabbiosa del 2019, tra social urlanti, gogne in piazza, risse per niente e odio per tutto. Ed è in questo scenario che il padre e il figlio di cui si parla, Franco e Manuel Bortuzzo, si sono trovati per la seconda volta in un mese in tv (su La7, a “Non è l’Arena”, qualche giorno fa, e prima ancora a “Porta a Porta” e sempre a “Non è l’Arena”) a risaltare per contrasto, e proprio nel momento in cui l’intolleranza nel lessico e nei modi raggiungeva il livello limite in capo a questo o quel soggetto, su migranti, tasse, reddito di cittadinanza, Tav, sblocca-cantieri, sospetta corruzione e intermittente indignazione. Poche parole pacate, hanno detto Franco e Manuel. Ma pensate. Non astiose, non angosciose, non vendicative. Se possibile (non si sa come) tranquillizzanti, nonostante la tragedia che a tutti e due è piovuta sulla testa poco più di un mese fa. Perché Manuel è il Manuel della famigerata “sparatoria con scambio di persona” che il 3 febbraio ha portato lui, nuotatore diciannovenne partito da Treviso per allenarsi nel centro federale di Roma-Ostia, a ricevere così, per uno scherzo orrendo della sorte, una pallottola che non era per lui ma che, colpendolo a livello spinale e provocandogli una paralisi dalla vita in giù, lo ha costretto a cambiare per sempre il piano A. Che era il piano di una “promessa del nuoto”, così gli dicevano, uno che vinceva le gare da quando era bambino e voleva allenarsi per arrivare alle Olimpiadi, e che per questo, a fine estate, ha salutato mamma, papà e natìo nord-est per andare a combattere sul millesimo di secondo con altri aspiranti campioni o campioni in carica, come Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti, che ora gli scrivono sconcertati dalla piscina, incitandolo a tornare: ti aspettiamo, mettici il fiato sul collo, per favore (Manuel appena sveglio li aveva salutati e presi in giro con un messaggio: “Quando torno vi faccio un culo così”). Solo che il piano non può più essere il piano A, anche se Manuel è già tornato in acqua per la riabilitazione che dovrà portarlo a risentire le gambe, prima di tutto. E nessuno capisce come faccia a dire nel modo sereno in cui lo dice quello che dice: cioè che la vita va avanti, che lui appena si è svegliato ha pensato sono vivo e questo basta, che a quelli che gli hanno sparato pensando fosse un altro, dopo una rissa forse per droga o forse no, direbbe sarcasticamente “bravi”, punto, come si dice a chi non sa quello che fa, e che lui stesso non sa perché ha reagito così, con questa calma e questo sorriso che, da fuori, pare impossibile: “Non c’è un protocollo, io sono fatto così, ho guardato a tutte le cose belle che ancora mi aspettano”. E si è emozionato, Manuel, quando è tornato in piscina e, sedendosi con le gambe a mollo, non ha sentito nulla, come non fosse neanche bagnato, e poi però piano piano, scendendo in acqua dal bordo della vasca, ha sentito qualcosa, per esempio che comunque riusciva a stare a galla. Hai momenti di sconforto? gli chiedono. E lui dice certo, sì, li ho avuti, ma questa è la realtà. Questa è la vita, dice suo padre Franco, “fa male ma dobbiamo rimboccarci le maniche”, e l’ha ripetuto a se stesso da subito,quel “rimboccarsi le maniche”, una frase che di solito si butta lì per retorica e per molto meno. La ripete da quando, la mattina del 3 febbraio, ha ricevuto la telefonata che nessun genitore vorrebbe mai ricevere e ha dovuto mettersi in macchina, con sua moglie e gli altri figli, senza neanche fermarsi all’autogrill, giù per l’autostrada senza poterci neanche pensare, al futuro, sapendo solo una cosa: Manuel era vivo, ma niente era come prima. Anzi, niente sarà più come prima, e l’ha voluto dire lui al figlio: guarda, tu ci sei da qui a qui, da lì a lì non ci sei più, ma lavoreremo per ricongiungere le due cose.

 

Prima la vita da “promessa del nuoto” a diciannove anni, l’arrivo a Roma, il sogno. Poi uno sparo nel buio e il non sentire più nulla

“Ti amo”, ha detto invece Manuel a Martina, la sua ragazza sedicenne, quando è caduto a terra dopo lo sparo: lei non aveva capito che cosa fosse successo, non riusciva neanche a prendere il cellulare per chiamare un amico e farsi aiutare, mentre Manuel non sentiva più le gambe, dopo aver visto in faccia il tizio che – non si sa perché – da un motorino gli ha sparato tre colpi gridandogli “figlio di puttana”. Come in un film, solo che non era un film, era la realtà, anche se lì di reale c’era solo Martina, e allora fammelo dire, “ti amo”, ha detto Manuel, metti che non ti rivedo più. “Ti amo”, ha urlato anche uno dei bambini scampati all’attentato sul bus dirottato da Ousseynou Sy due giorni fa tra Crema e Linate – correva fuori dal bus e diceva “ti amo”, il dodicenne, ed era un “ti amo” che abbracciava non soltanto una persona ma il futuro nel suo complesso. Ed è chiaro che, in quella che pare in questi giorni la fantasia-speranza più diffusa tra gli adulti abituati all’esplosione quotidiana e superficiale di odio un tanto al chilo – la fantasia-speranza del “mondo salvato dai ragazzini” – i due “ti amo” detti nel momento più drammatico dal superstite del bus e da Manuel Bortuzzo escono da qualsiasi iconografia da cioccolatino per farsi traduzione di un pensiero tanto elementare quanto evoluto: voglio vivere.

 

Quel “ti amo” detto a Martina quando non si capiva che cosa fosse successo e quel “sono ancora qui” detto a chi l’ha colpito

Ma vivere come? questo è il punto. Si poteva finire nella disperazione, nell’odio, nell’avvitamento cieco che fa dire a più di una persona, nel quartiere di Acilia dove vivono i ragazzi che hanno preso Manuel per un altro, che “il pischello ha fatto una cazzata” (dove per pischello si intende il venticinquenne che ha sparato). Si poteva finire a lamentarsi, anche giustamente. A compatirsi. Chiunque, si pensa da fuori, avrebbe guardato quantomeno indietro, a quello che poteva essere. Invece è successa una cosa strana, che rende la vicenda dei due Bortuzzo, padre e figlio, un fatto che trascende il fatto stesso: se Manuel, come dice, deve reimparare a sentire, fuori è come se si dovesse reimparare a parlare. E in qualche modo lo suggerisce Franco, davanti alle immagini degli incarogniti vicini di casa dei due “quasi assassini” per scambio di persona, vicini di casa che vogliono cacciare via chiunque chieda notizie, e che ripetono ossessivamente che i due sono bravi ragazzi che hanno sbagliato, forse perché l’appartenenza estrema a un gruppo, in questo caso il quartiere (ma potrebbe essere, in un crescendo soltanto apparentemente più asettico, un ufficio, un partito, uno stato), è più forte di qualsiasi umana e istintiva reazione. “Mamma fatti coraggio”, ha detto Manuel a sua madre quando si è svegliato e ha dovuto fare i conti con il sogno in pezzi della vita che aveva immaginato fino a quel momento. “Ha diciannove anni e non andrà alle Olimpiadi, non a quelle che immaginava, ma non è crollato. Quindi la salvezza c’è: è Manuel che si è già salvato da solo, con la sua famiglia”, ha scritto su questo giornale Annalena Benini, e quello che lascia attonito chi guarda da fuori è infatti il modo in cui si sta salvando Manuel: senza una parola di troppo. Ora è lui che mi dà la forza, dice suo padre, che per un attimo, prima che Manuel si svegliasse, ha pensato di dover essere le gambe di suo figlio, e invece Manuel era già in qualche modo in piedi. E ora Franco riflette su quello che c’è da rimettere a posto non soltanto nella vita di Manuel, ma anche in quella degli altri, i due che hanno sparato: qualcosa c’è da ricostruire, nel tessuto sociale, dice in tv, e il presidente della Federnuoto Paolo Barelli ha aggiunto che lui non sa come faccia Manuel a essere così calmo e senza rancore, ché lui non ce la farebbe, a guardare solo avanti e non indietro, a quella sera maledetta. Invece no: Manuel ora vuole guardare avanti: ora comincia “un altro allenamento”, ha detto a Barelli.

 

Sui social va in scena ogni giorno l’odio scomposto di chiunque per chiunque. Manuel e suo padre parlano pensando

E mentre fuori, sempre per molto meno, si rincorrono, da una parte e dall’altra, tra Twitter e Facebook, parole a casaccio e propositi di vendetta sulla qualsiasi (sulla nave dei migranti, sul caso De Vito, sulle europee, sulla prossima legge di bilancio), ci si ritrova a guardare con incredulità ammirata, ma anche con sgomento, a come Manuel prende di petto le conseguenze del caso nella vita di Manuel, un diciannovenne a cui poteva andare tutto in altro modo, se non si fosse trovato in quel bar all’Axa, quella sera, per il compleanno di un amico, e se non si fosse sentito dire da un passante “non salite al pub che c’è una rissa”. Si è ribaltato tutto: c’è comunque la piscina, ma con un altro obiettivo in testa (io devo sempre avere degli obiettivi, dice Manuel, e a ogni piccolo risultato mi arrabbio, perché vorrei tutto subito – anche ora che il tutto è diverso da quello immaginato). E viene in mente un titolo di giornale di tanti anni fa: “L’attore Christopher Reeve, alias Superman, cade da cavallo e resta paralizzato”– e pareva, allora, il contrappasso casuale e feroce che colpisce il supereroe, togliendogli in un soffio le ali e il movimento. Come pure contrappasso assurdo pare quello toccato al suo amico e attore Robin Williams, che nel ’95 era andato a trovare Reeve travestito da chirurgo per farlo ridere, e che nel 2014 morirà suicida dopo aver ricevuto una diagnosi infausta per una grave malattia neurovegetativa. Forse anche Reeve aveva tentato di dominarle, le conseguenze del caso, quando aveva recitato nel remake de “La finestra sul cortile”, il film icona di Alfred Hitchcock, e si era fatto riprendere sulla sua vera carrozzella, nei panni del personaggio un tempo interpretato da James Stewart.

 

Invece Manuel quasi quasi ha salvato tutti, anche gli spettatori che magari, nella loro vita non stravolta dal caso, si dannano per problemi anche gravi, ma non senza appello, e restano rapìti a guardarlo mentre nuota di nuovo soltanto con le braccia e sorride al rovesciamento di prospettiva, e spiega a Bruno Vespa o a Massimo Giletti che lui, al ragazzo che gli ha sparato, oggi direbbe “sono ancora qui”, ma che per quanto riguarda i motivi del suo gesto e dello scambio di persona preferisce non commentare – “non ho la competenza per poter parlare”, dice nell’epoca del commento di tutti su tutto, mentre suo padre lo guarda con un sorriso un po’ stanco, un po’ combattente. Chi ha salvato e salva chi, tra i due? Difficile a dirsi. Non è una cosa che si impara, la si vive e basta, come dice il protagonista di “In tutto c’è stata bellezza”, romanzo fulminante dello scrittore spagnolo Manuel Vilas: “Mio padre non mi insegnò a volergli bene… da bambino mi prendeva per mano e uscivamo. Del resto, non è che a lui avessero chiesto se voleva essere padre, se davvero aveva preso la decisione di essere padre in modo libero e senza costrizioni”, e di quel padre Vilas parla come parlasse di se stesso, come se uno dei due, a turno, fosse specchio o appendice dell’altro, fino a non distinguersi neppure nei difetti (“succedeva anche a anche mio padre. Aveva dei crolli della volontà. Come me”). E, davanti all’irreversibile, si può fare come il protagonista di “Gente comune”, il film di Robert Redford sull’impossibile superamento di un trauma in una famiglia, in cui il padre cerca di educare il figlio all’ineluttabilità del male e del destino. Oppure si può fare come Manuel, che a ogni minuto inchioda chi lo ascolta a una piccola e potente verità: può essere un caso prima, dopo ci sei tu.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.