Elogio dei cervelli in fuga

Marianna Rizzini

Controstoria dei giovani italiani che dopo gli studi vanno all’estero, senza scappare, senza lagnarsi, senza retorica e rivendicando le formidabili virtù della società aperta. Perché il cosmopolitismo è un regalo offerto ai nostri figli da un mondo libero e in movimento. Un’inchiesta

C’era una volta “l’appartamento spagnolo”, inteso come film cult di Cédric Klapisch sulla generazione Erasmus ma inteso anche come luogo della mente e rifugio metaforico a fine università, quando l’ansia per il “dopo” cresce e le peggiori profezie di sventura sul lavoro che non c’è suggeriscono l’emigrazione temporanea, con contorno di stanze in condivisione, metropolitane all’ora di punta, caffè da asporto e futuribili biblioteche o laboratori mai visti in patria (se ci sono anche in patria non importa: l’immaginario dell’emigrando viaggia già verso le luci verdognole e le scale alte fino al soffitto di una sala-studio americana). A volte l’emigrazione diventa definitiva, spesso no. A volte succede che si apra il giornale e si legga una dichiarazione come quella di Giorgio Vacchiano, ricercatore della Statale di Milano incoronato tre giorni fa da Nature tra gli undici scienziati che “stanno lasciando il segno” e “hanno il mondo ai loro piedi” (c’è anche un’altra italiana, Silvia Marchesan dell’Università di Trieste): “Ho rifiutato offerte dall’estero”, ha detto Vacchiano, scuotendo per un attimo la convinzione collettiva che vuole il cervello illustre sempre a rischio fuga. Ma che emigrare possa essere destino lo si pensa, almeno una volta nella vita, nel mezzo del cammino verso l’età adulta, e si tende a ripensarlo dopo, più e più volte, per volontà o pigrizia, scaramanzia o passaparola. Ci sono i racconti di chi è emigrato e si trova benissimo, anche se magari non sempre, prima di emigrare, si è trovato malissimo. Ci sono i ricordi di chi ha vissuto l’università in Italia trent’anni fa, quando gli atenei erano soprattutto nelle grandi città e nei grandi centri, e se eri nato in un piccolo centro dovevi per forza uscire dalla “confort zone” (come la chiamava Sergio Marchionne), con tutti i pro e i contro, ma con effetto choc sulla pigrizia post-adolescenziale. E ci sono le testimonianze (sui giornali e non solo) di chi in patria si è sentito escluso, di chi trova ingiusto che i propri figli “debbano andarsene per forza”, di chi vuole rientrare ma non sa come, dove e quando. Specie in un sistema accademico chiuso, a differenza di quello anglosassone (dove puoi insegnare ovunque, ma non dove hai studiato).

  

Ci sono i racconti di chi è emigrato e si trova benissimo, anche se non sempre, prima di emigrare, si è trovato malissimo 

Non si sentono altrettanto spesso, invece, i racconti di chi è andato via per scelta, per afflato cosmopolita, per studio preventivo del mercato del lavoro. E, a forza di sentire discorsi allarmati e allarmanti sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”, la fuga dei cervelli diventa categoria unica per contenere la realtà molto sfaccettata degli “expat”. Da un lato c’è, nelle famiglie e nei consessi culturali, la tentazione di dare automatica ragione all’allerta continua sul muro (vero o presunto) creato nelle università dalla triade “familismo, nepotismo e clientelismo”. Il mantra (e retorica connessa) si declina di solito in tre varianti: “Studio studio e poi tanto la carriera universitaria la fanno i figli dei baroni”; “studio studio e non c’è sbocco”; “studio studio ma in Italia sarò sempre un ricercatore/professore/laureato o professionista al palo o di serie B”. Dall’altro lato, sottotraccia, c’è chi, da qualche anno, si è messo a studiare il fenomeno che sta sotto al titolo “fuga di cervelli”, intellettuali e studiosi volati altrove – alcuni dei quali hanno raccontato però di non sentirsi per niente “in fuga”, e anzi di trovare l’espressione vagamente tragicomica, come notava nel marzo del 2017 Stefano Albertini, professore e già direttore della Casa italiana della New York University, in un post per “Expat”, sorta di bacheca virtuale degli emigrati oltreoceano sulla rivista online la Voce di New York: “Da quando sono partito per gli Stati Uniti, quasi 30 anni fa”, scriveva Albertini, “sono perseguitato da questa immagine tra il comico e il grottesco del cervello in fuga, a metà strada, nella mia immaginazione, tra le galline in fuga del cartone animato e i film di zombie di serie C con parti del corpo che vanno in giro indipendentemente dal resto…”. E proponeva, Albertini, a proposito dell’Italia sempre considerata “familista, nepotista e clientelista” di “inserire una regola che negli Usa è così ovvia e banale che non è nemmeno scritta e impedisce di fare due passaggi universitari consecutivi nello stesso ateneo: non si può fare il dottorato dove si è conseguita la laurea, non si può diventare ricercatori dove ci si è addottorati e via di seguito…”. Anni prima, nel 2014, era uscito lo studio “La meglio Italia. Le mobilità italiane nel XXI secolo” di Maddalena Tirabassi, allora direttore del centro Altritalie di Torino, e di Alvise Del Prà, ricercatore nello stesso centro, in cui si parlava di “migrazioni liquide” e di gente che non soltanto non si sentiva “cervello in fuga” ma neanche necessariamente esponente de “la meglio Italia”. Intervistati sulla suddetta rivista online da Riccardo Giumelli, gli autori così parlavano della nuova mobilità globalizzata: “In genere tendiamo a non utilizzare l’espressione ‘fuga dei cervelli’, termine che risulta fuorviante in quanto focalizza l’attenzione su una fascia ristretta di migranti escludendo nel contempo la varietà degli attori che si trasferiscono di questi tempi: dal semplice operaio non specializzato al pizzaiolo, dal cosiddetto creativo fino, appunto, al manager, al ricercatore e così via… 

  


La tentazione di dare sempre ragione all’allerta sulla triade “familismo, nepotismo, clientelismo” nelle università


  

Il termine derivante dalla traduzione dell’inglese ‘brain drain’ assume un senso compiuto nel momento in cui si valuta anche il ‘brain gain’ e la conseguente circolazione dei cervelli…”. E l’associazione Italents, in collaborazione con la regione Emilia Romagna e la Consulta regionale per l’emigrazione, nel 2015 ha pubblicato i risultati di un’indagine, ripresa da linkiesta.it, fatta per capire chi sono e che cosa fanno gli “expat”, andando oltre lo stereotipo sulla fuga dei cervelli (e l’allora direttore di Italents Alessandro Rosina, docente di Demografia, parlava di “Italia diffusa”).

  

Se il nome del fenomeno dunque può cambiare (mobilità globalizzata? trasnazionalismo culturale? cosmopolitismo occupazionale?), l’immagine della “fuga” non riesce più a contenere le sfumature. Poi, un paio di mesi fa, è arrivata la notizia dell’assegnazione della medaglia Fields, il Nobel per la matematica, ad Alessio Figalli, trentaquattrenne italiano all’estero che, intervistato dal Messaggero, alla domanda “c’è qualcosa di italiano in questo premio?”, rispondeva: “Sì, la mia formazione è italiana. E aver vinto dimostra che il nostro paese riesce a formare. Quindi credo che questo mio riconoscimento sia una bella soddisfazione anche per l’Italia”. Che sia anche una questione di linguaggio, il linguaggio dell’indignazione automatica contro un sistema considerato comunque “matrigno”, l’allarme sui cervelli in fuga? E quanto del fenomeno “emigrati intellettuali” ha a che fare invece con l’attitudine a spostarsi diffusa nella generazione che, prima del deflagrare dei neopopulismi, ha conosciuto una sorta di globalizzazione europea?

  

Il brasiliano Gabriel Pundrich, esperto di big data, insegna alla Bocconi. Dopo un periodo negli Stati Uniti, ha preferito all’Australia l’Italia, dove ha trovato “infrastrutture di supporto che non hanno nulla da invidiare a quelli di altri paesi”. Chi si forma qui “è abituato a essere creativo” riguardo al proprio futuro 

Di recente, Stefano Paleari, docente di Analisi dei sistemi finanziari all’Università di Bergamo, e coordinatore di un team di ricerca (con Mattia Cattaneo e Paolo Malighetti) sul tema dell’emigrazione intellettuale, ha parlato sul Sole 24 Ore della doppia faccia del “brain drain italiano”. Se è vero, scriveva Paleari, che il fenomeno della “perdita di capitale umano” esiste (“… si stima che nel decennio 2010-2020 l’Italia perderà circa 30 mila ricercatori. La formazione di questi ricercatori pesa sul bilancio pubblico per circa 5 miliardi di euro, contribuendo allo sviluppo economico dei paesi ospitanti…”), non è così vero che a spostarsi siano solo “i migliori”, altra convinzione radicata sull’argomento. Con Cattaneo e Malighetti, Paleari ha “confrontato la qualità scientifica di due popolazioni di ricercatori che hanno svolto il dottorato nel nostro paese e poi si sono divisi: una parte ha proseguito l’attività scientifica all’estero (30 per cento), la restante ha continuato a lavorare in Italia”. Tesi da verificare: “Il campione di emigrati ‘batte’ sul piano della ricerca gli autoctoni”. Il risultato della ricerca, condotta su circa millecinquecento dottori di ricerca italiani provenienti da dottorati in Economia, Finanza, Management, dottorati tra il 2008 e il 2010, pubblicato con il titolo “The Italian brain drain: cream and milk”, e ripreso su Times Higher Education, ha evidenziato non soltanto che “le performance di ricerca nel periodo di dottorato e nell’anno successivo tra coloro che sono andati all’estero e coloro che sono rimasti in Italia non sono statisticamente differenti”, ma che “vanno all’estero quelli molto bravi (Figalli docet, ndr) perché agganciano gli atenei più blasonati e hanno percorsi di carriera rapidi e adeguate remunerazioni. Vanno altresì all’estero quelli sotto la media perché non si sentono competitivi nel loro paese; la flessibilità di reclutamento tipica di altre aree, non solo anglosassoni, dà loro una chance subito dopo il dottorato. Metaforicamente possiamo dire che la ‘crema’ dei migliori c’è grazie al ‘latte’ rappresentato da tutti coloro che lavorano nel nostro paese con serietà e merito e a coloro che formano tutti in modo soddisfacente”.

  

Mattia Cattaneo, interpellato sulla ricerca suddetta, torna sulla doppia natura dell’emigrazione intellettuale: “Le probabilità di emigrazione aumentano quando le performance scientifiche sono molto alte o molto basse. Con riferimento alle variabili individuali e di contesto, il profilo del dottore di ricerca più propenso a lasciare il nostro paese è quello di un ragazzo già abituato a trascorrere periodi di studio all’estero. E’ inoltre più probabile che abbia conseguito il dottorato in un’università del nord/centro Italia, in un dipartimento più internazionalizzato e caratterizzato da un numero di dottorandi elevato rispetto alla crescita dell’organico dell’ateneo di riferimento. In media, la scelta ha riguardato paesi con una spesa in ricerca e sviluppo più alta rispetto al contesto italiano”. Certo bisogna riflettere, dice invece Paleari, sull’“incapacità” di trattenere gli studiosi molto bravi: questo “suggerisce una riflessione sui nostri tempi patologici di reclutamento e carriera, e probabilmente, sull’insufficienza dell’offerta intesa come risorse a disposizione”.

  

Eppure l’Italia da cui le menti, secondo la narrazione classica sulla “fuga”, tendono a dileguarsi, per altro verso i cervelli li attrae. C’è chi, come il brasiliano Gabriel Pundrich, docente alla Bocconi, esperto di big data, dopo un periodo negli Stati Uniti, ha preferito l’Italia all’Australia. Non solo, dice, “per la qualità della vita, per la dimensione delle città che rende il percorso casa-lavoro diverso dal viaggio che spesso i commuters devono affrontare all’estero, e non solo per la facilità di dialogo interpersonale”, ma per l’esistenza, in Italia, “di poli di eccellenza con infrastrutture di supporto che non hanno nulla da invidiare a quelli di altri paesi”. Dice Pundrich che “gli ingegneri chimici italiani, per contro, sono richiestissimi all’estero” e che “il buon livello di istruzione di base italiana fa la differenza. Chi si laurea in Italia è apprezzato anche perché viene da un percorso altamente formativo”. E anche se “la meritocrazia in Italia può restare utopia”, dice, nel complesso chi si forma qui “è abituato a essere creativo” riguardo al proprio futuro.

  

“I cervelli, se sono tali, si muovono in base agli incentivi: le persone guardano al pacchetto complessivo. L’ateneo, gli strumenti di ricerca, certo, ma anche le infrastrutture di contorno”, dice il rettore Gianmario Verona, convinto che si possa andare davvero verso un “cosmopolitismo dei cervelli” 

Francesco Billari, prorettore della Bocconi (partito e poi rientrato in Italia), racconta di essere andato all’estero una prima volta durante il dottorato di ricerca (“esperienza con biglietto di ritorno”), in linea con la generazione Erasmus, e di essere poi ripartito senza data di rientro e “senza paracadute”, prima per la Germania poi per Oxford, dove aveva anche comprato casa e dove aveva fatto trasferire i cinque figli e la moglie, tanto gli pareva definitiva la scelta. Invece poi, contro ogni aspettativa, è tornato, “carico dell’esperienza fatta fuori”. Dice Billari che “molti professori di università straniere sono disposti a venire in Italia”. Non è vero “che l’Italia non risulta attrattiva”. Quanto ai dati, nell’ateneo milanese il totale dei docenti stranieri è oggi di 71 professori, pari al 21,4 per cento. Undici tedeschi, otto francesi, sette americani, sei inglesi, quattro danesi, tre da Grecia, Spagna e Turchia. Gli studenti stranieri invece sono quattromilacento, provenienti da cento paesi diversi. Gianmario Verona, rettore della Bocconi, sottolinea l’importanza della capacità di “ri-attirare” chi se n’è andato: “I cervelli, se sono tali, si muovono in base agli incentivi: le persone guardano al pacchetto complessivo. L’ateneo, gli strumenti di ricerca, certo, ma anche le infrastrutture di contorno”, dice Verona, convinto che si possa andare davvero verso “un cosmopolitismo dei cervelli: già oggi ci sono fiere internazionali per materia, in cui la domanda e l’offerta intellettuale per così dire si incontrano, anche se, con la stretta sui visti, la mobilità sta diventando meno ‘liquida’”.

  

Per il rettore della Sapienza Eugenio Gaudio, “il fenomeno della fuga esiste,  ma più dal punto di vista qualitativo  (vanno via tendenzialmente i laureati della fascia più alta di votazione di laurea) che quantitativo (è normale in tempi di globalizzazione e internazionalizzazione che i laureati si muovano ). Il fatto è  dovuto alla scarsa attrattività del nostro paese: in estrema sintesi,  pochi posti (1/2- 1/3 rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo ) e mal pagati  (almeno il 60 per cento di retribuzione in meno”.

  

Ma come si attraggono docenti? “Intanto in molti atenei, tra cui la Bocconi”, dice Verona, “c’è più offerta di corsi in inglese rispetto al passato, e questo abbatte la barriera in entrata per il docente straniero, oltre che per lo studente. I nostri dipartimenti sono alla ricerca di talenti, e per questo siamo disposti a essere flessibili. Abbiamo un piano per i visiting professor, in cui si finanzia la permanenza, e un piano per i giovani, anche in quel caso con selezione e finanziamento durante il seminario”. L’anno scorso, dice Billari, si era anche riaperta la discussione (e la polemica) sulle cosiddette “cattedre Natta” (dal nome del Nobel per la chimica), nate, si leggeva nel maggio 2017 sul Sole 24 ore, “per chiamare ogni anno 500 super cervelli – italiani e stranieri – a insegnare nel nostro paese…”.  

  

L’idea era stata accantonata dopo la sonante bocciatura del Consiglio di Stato di fine 2016 e dopo l’uscita di scena di Matteo Renzi “che ne aveva issato la bandiera per internazionalizzare i nostri atenei”, e poi ripresa. “Una nuova bozza di Dpcm, a cui ha lavorato il ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, è infatti allo studio di Palazzo Chigi”, annunciava il Sole. Ma le cattedre Natta hanno poi trovato molta opposizione nel mondo accademico: l’obiettivo era di finanziare cinquecento chiamate dirette all’anno di docenti di prima e seconda fascia a cui dare la cattedra, con la promessa di uno stipendio più alto, “senza dover passare per l’iter ordinario, complesso e faticoso”, si leggeva sul quotidiano, “una ‘corsia preferenziale’ che ha fatto storcere la bocca a molti nel mondo accademico reduce da anni di tagli”. I fan delle cattedre Natta ancora oggi invece dicono che è un tentativo di mediare tra assunzione di responsabilità e trappole dei concorsi trasparenti in cui è facile che nessuno decida. E c’è chi preferisce non assumersi la responsabilità, e vivere il concorso per l’insegnamento universitario come una sorta di concorso per un posto alle Poste (con tutto il rispetto per il posto alle Poste).

  

Tra i meccanismi che potrebbero “sbloccare” il sistema, sempre Billari evidenzia quello che a suo avviso è un meccanismo virtuoso: si “compete” tra ateneo e ateneo rispetto all’attrazione di docenti e giovani, che in molti casi fanno domanda in contemporanea in vari posti. Soltanto se dopo alcuni anni si dimostreranno validi, però, i prescelti verranno confermati a tempo indeterminato. E c’è chi dice che la competizione tra atenei, con conseguente competizione tra studiosi, potrebbe spazzare via anche la polemica sui concorsi e sul meccanismo del concorso per così dire “disegnato” su una figura di ricercatore.

  

Nel 2016, intanto, il tema “fuga dei cervelli” era stato affrontato da Matteo Renzi, allora premier. Parlando dalla Scuola superiore Sant’Anna Renzi aveva detto: “Non continuiamo con la retorica. Il punto centrale è che bisogna trovare il modo di essere attrattivi, aprirsi alla competizione internazionale”. Ma poi un’uscita poco diplomatica dell’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti aveva acceso la polemica (intanto Renzi era stato sconfitto al referendum costituzionale): “Se ne vanno 100 mila”, aveva detto Poletti, “non è che qui sono rimasti sessanta milioni di ‘pistola’. Permettetemi di contestare questa tesi… conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche se il ministro poi si era scusato (“mi sono espresso male”) la sua uscita non era stata perdonata, nonostante il corollario fosse più morbido: “E’ bene che i nostri giovani abbiano l’opportunità di andare in giro per l’Europa e per il mondo. Ma dobbiamo offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.

 

Chi si muove? “Chi ha qualità che riducono il costo di spostamento, chi ha specifiche competenze, chi ha un capitale economico che fa da paracadute, chi ha un network di contatti. Non persone per così dire ‘disperate’. Quanto ai laureati, tra chi emigra sono il 30 per cento” (Guido Tintori)

La fuga di cervelli, però, pur uscita dalle agende governative (per ora), torna nei titoli di giornale a ogni apertura di anno scolastico e accademico (“Fuga dalla scuola” è per esempio la copertina dell’Espresso della scorsa settimana. Sottotitolo: “Ogni anno più di 150 mila studenti abbandonano le aule. E lo stato perde quasi tre miliardi di euro. Chi invece riesce a diplomarsi, poi scappa all’estero”). Si torna al punto critico sotteso al ricorrente allarme sulla fuga: come può l’Italia essere attrattiva per un “cosmopolitismo intellettuale”, compreso quello degli italiani emigrati ma disposti a tornare?. Dall’Università di Tor Vergata, il rettore Giuseppe Novelli riporta un dato: nel periodo 2015-2017 sono stati 83 gli assegnisti di ricerca stranieri reclutati dall’ateneo che, sul fronte “attrazione studenti”, ha avviato un corso di laurea interdisciplinare in Global governance, rivolto a futuri funzionari di organismi internazionali, tutto in inglese, anche se tarato sul sistema italiano. Argomento principale di un recente advisory board, il miglioramento delle sorti della ricerca in Italia secondo il rettore di Tor Vergata non si può fare se si resta ancorati all’immagine di “fuga”. Novelli cita Salvatore Settis: “E’ paradossale, mi pare”, diceva Settis, “che sui giornali si parli più della ‘fuga dei cervelli’ che della crisi della ricerca, che ovviamente ne è la causa. Ma anche la ‘fuga dei cervelli’ viene discussa purtroppo in modo assai spesso rivelatore di una mentalità arcaica, angusta, provinciale. ‘Cervelli’ italiani in fuga, questa la formula, facciamoli ritornare da noi. Ma il vero punto non è di instaurare un regime protezionistico per cui gli italiani fanno ricerca in Italia, gli americani in America e così via. Un mondo come questo di fatto (e per fortuna) non è mai esistito, nemmeno nel Medioevo, quando dotti e sapienti clerici vagantes circolavano, per insegnare e per imparare, da Parigi a Oxford a Bologna a Salamanca […]. Quello che esiste oggi è un mercato del lavoro intellettuale che segue le logiche della globalizzazione e del quale la mobilità è l’asse portante”.

  

Per i nuovi “vagantes”, dice Novelli, “la ricerca è il traino per lo sviluppo e la crescita, il cuore pulsante che fa progredire la società lungo un sentiero sostenibile. Perché il sapere umanistico, scientifico e tecnologico fa avanzare il benessere e genera circoli virtuosi, soprattutto in un mondo di tecnologie convergenti.  I trend degli ultimi anni vedono uno spostamento degli investimenti della ricerca globale verso i paesi asiatici che stanno diventando sempre più competitivi nell’attirare capitali, costruire infrastrutture, richiamare talenti da tutto il mondo, offrendo loro la possibilità di carriera e di benefit attrattivi (spesso senza lacci e lacciuoli della burocrazia).  Noi europei possiamo e dobbiamo rispondere a questa sfida, attraverso una maggiore collaborazione tra atenei e industria e attraverso l’aumento di opportunità di mobilità e di interscambio tra università (come il mutuo riconoscimento dei titoli di studio).  Perché scambi, movimento, internazionalizzazione, contagio di cultura e di idee significano far crescere l’Europa”. Il “come” passa anche attraverso il coinvolgimento dei privati, dice Novelli, secondo una strategia “win win win” e con “l’ingresso delle aziende nelle università: aziende che hanno ingresso gratuito se vogliono fare innovazione sul prodotto. Noi glielo rinnoviamo, e poi loro ripartiscono le royalties. In questo modo tutti ‘guadagnano’ dal circolo virtuoso”. Questa idea è piaciuta all’estero: a novembre è previsto a Tor Vergata un incontro con quaranta aziende francesi che vogliono “innovare”. Dopodiché, dice Novelli, “il cervello è fatto per viaggiare”. Fuga o movimento? Secondo il rettore, il movimento nutre la ricerca quando si fa “gioco di squadra”: Tor Vergata ha scelto di fare rete con un gruppo di giovani atenei europei (Yerun è una rete di università europee con meno di 50 anni di vita che si distinguono per la qualità della loro ricerca. Un network distribuito in 12 paesi europei, con un aggregato di oltre 300 mila studenti e un budget dedicato alla ricerca di circa 1,2 miliardi euro). 

  

“Oggi non si può più dire che non ci siano possibilità per chi vuole cimentarsi nella carriera universitaria. E poi sì, posso dire di aver visto persone non meritevoli ricoprire posti immeritati, ma non ho mai visto una persona davvero meritevole che non ce l’abbia fatta” (Paola Severino)

Grande aiuto per andare oltre i luoghi comuni sulla “fuga dei cervelli” viene dalle ricerche di Guido Tintori, ricercatore associato di Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione www.fieri.it ). In uno studio di prossima pubblicazione, Tintori fin dal titolo pone al lettore un dubbio: stiamo parlando di “mobilità o di migrazione?”. Si parte dai dati su chi si muove, tenendo conto della difficoltà di lettura (chi emigra non sempre comunica il cambio di residenza all’Aire. Lo fa soltanto se intende restare all’estero). Guardando i dati Istat, dice Tintori, nell’ultimo decennio c’è stato un aumento di migrazioni italiane, anche se nel 2017, per la prima volta, c’è stata una riduzione di italiani in uscita. Chi si muove? “Chi ha qualità che riducono il costo di spostamento, chi ha specifiche competenze, chi ha un capitale economico che fa da paracadute, chi ha un network di contatti. Non persone per così dire ‘disperate’. Quanto ai laureati, tra chi emigra sono il 30 per cento, il resto ha un diploma di scuola superiore o inferiore. Ci sono anche pensionati. C’è insomma una percentuale fisiologica di laureati che emigra, non una fuga di massa di cervelli. Poi c’è un alto numero di emigrati nel settore cibo e ospitalità (gran parte di chi emigra in Australia)”. Percentuale fisiologica significa anche, dice Tintori, mobilità naturale in quello che è stato per decenni un mercato comunitario. Guardando i rientri, poi, si trova ancora un trenta per cento di laureati. Perché rientrano? Per fallimento o per altre motivazioni? C’è anche un aspetto mediatico che offusca i dati reali, dice Tintori: il cosiddetto “selection bias”, come un occhio “viziato” nelle interviste. Si tende cioè a interpellare sui giornali chi all’estero ce l’ha fatta, mentre chi fatica e rientra non rileva allo stesso modo. E Londra è sempre descritta come il Bengodi, anche se il consolato italiano a Londra, racconta Tintori, non soltanto si è trovato a dover rimpatriare centinaia di italiani che non ce la facevano, ma ha anche attivato un canale informativo dedicato allo smantellamento della grande illusione: come a dire “qui non è il paradiso, attenzione”.

  

Per fotografare davvero la popolazione italiana all’estero “bisognerebbe verificare quanti si sono mossi perché hanno sempre voluto muoversi, per inclinazione personale da cittadino europeo”. Precari, sì, ma, dice Tintori citando la propria esperienza personale, “magari precari di alto livello e per scelta. A volte, per così dire, se si ha un cervello, prima di essere in fuga, lo si usa per leggere il mercato del lavoro”.

 

Nella ricerca di Tintori si evidenziano alcuni punti critici nella percezione e descrizione del fenomeno migratorio, elementi che possono alimentare in parte la retorica sullo “stato cattivo che ripudia i figli migliori”. Alcune domande vengono in primo piano: quanto del flusso migratorio è dovuto alla crisi economica del 2008? Quanto alle scelte strategiche di lungo termine su lavoro, settore manifatturiero e sistema scolastico? Quanto conta la retribuzione bassa nel determinare uno “spreco” di laureati in Italia? In altre parole: siamo sicuri che il vero problema sia la partenza di venti, trentamila laureati e non lo spreco interno degli stessi, non valorizzati e retribuiti adeguatamente?

 

Questo dato ha qualcosa a che fare con il fatto che la competenza, nel discorso pubblico, non sempre sembra essere elemento fondamentale del tema “ricerca del lavoro”, come se in qualche modo si pensasse che “basta il talento”? Dice Paola Severino, vice presidente dell’Università Luiss Guido Carli con delega all’internazionalizzazione, docente di Diritto penale, già rettore della Luiss e già ministro della Giustizia: “Il mio primo pensiero da rettore è stato questo: che cosa si può fare di utile per i giovani che devono pensare al loro futuro?”. L’internazionalizzazione è una strada ma, dice Severino, “bisogna chiedersi se il processo sia unidirezionale o bidirezionale. Nessuno contesta l’utilità dei soggiorni all’estero durante l’università, ma c’è stata un’evoluzione che ha portato a un quadro di internazionalizzazione post laurea. Va bene mandare i nostri laureati all’estero, ma dovremmo ora anche cercare di attrarre o ri-attrarre dall’estero, perché solo con l’integrazione delle culture si può progredire. Quando sento parlare di fuga dei cervelli dico che avremo un’evoluzione nel nostro modello culturale quando sostituiremo al concetto di fuga quello di prestito di cervelli: si va, ci si forma e si torna arricchiti. Chiunque ne abbia la possibilità dovrebbe lavorare per richiamare in Italia chi ha avuto e sta avendo esperienze di formazione e ricerca all’estero. I bandi internazionali aiutano ad aprire il circuito virtuoso. Dopodiché non tutti gli espatriati hanno la stessa motivazione: c’è chi va perché qui non trova spazio, ma anche chi va per restare. Ma si percepisce oggi anche molta voglia di venire in Italia da parte di docenti stranieri, per esempio dalla Gran Bretagna”.

 

Quanto allo spauracchio per antonomasia del laureando – la non-meritocrazia – Severino dice: “Oggi, con il meccanismo delle idoneità di prima e seconda fascia, non si può più dire che non ci siano possibilità per chi vuole cimentarsi nella carriera universitaria. E poi sì, posso dire di aver visto persone non meritevoli ricoprire posti immeritati, ma non ho mai visto una persona davvero meritevole che non ce l’abbia fatta”. C’è poi, dice Severino, “un flusso di trasferimenti interni: dal sud al nord, segno che anche molte famiglie modeste investono in cultura per i propri figli. Come ripagare lo sforzo? Forse oggi, in epoca ‘cyber’, si può lavorare sullo sbocco professionale che va al di là del radicamento in un unico luogo. Posso studiare qui e poi sviluppare una startup nel paese d’origine. Posso creare un’integrazione con le imprese, che potrebbero diventare un bacino importante per assorbire i laureati di ritorno”.

 
 
 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.