Lo scrittore Roberto Saviano (Foto Imagoeconomica)

Dal meridionalismo a Saviano e Pino Aprile, un'Italia tornata indietro

Maurizio Crippa

Assistenzialismo, vittimismo e un'ideologia anti-sviluppo. Ecco perché il sud è diventato grillino 

Ieri Mondadori ha mandato in libreria il nuovo libro di Raffaele La Capria, grande scrittore nato a Napoli (96 anni fa), ma guai a classificarlo come scrittore napoletano: lui con la sua città natale ha condotto un “poetico litigio” lungo una vita, proprio cercando di liberarsi, racconta, dai “condizionamenti” di certe immagini stereotipate e libresche. Il titolo è “Il fallimento della consapevolezza”, e sembra un involontario giudizio di Dio. Ovviamente non su di lui – raffinato esponente di una generazione cosmopolita anche nel modo di concepirsi in rapporto al sud dell’Italia – bensì su una classe intellettuale (scrittori, giornalisti, editori, persino musicisti) odierna che si è come smarrita, in quel rapporto. Ci fu un grande pensiero meridionalista (e c’è ancora), e anche intellettuali non “meridionalisti” ma capaci di leggere il loro mondo. Oggi c’è un ceto culturale che – quando si affaccia alla tribuna nazionale – sembra ridotto al lamento, alla rivendicazione. Fino all’avallo, magari involontario, del rancoroso populismo poveraccista che ha preso la maggioranza dei voti nella metà meridionale del paese.

 

Lo spunto può sembrare banale, parziale, ma il diavolo a volte sta nei dettagli. Qualche giorno fa ho intercettato un tweet di Alessandro Laterza, a capo di una famiglia di editori liberali di grande livello, intellettuale intelligente e giustamente preoccupato. Scrive: “Ma che dire del Pd lombardo-veneto che sposa la linea secessionista delle Regioni più ricche del paese, cioè la morte del Sud?”. Secessionista? E ancora: “Entro il mese di ottobre il governo varerà l’inizio della secessione nordista e della rottura dell’unità nazionale. Qualcuno tutelerà gli interessi del Mezzogiorno e dell’Italia tutta? Tutti a inseguire la trovata del giorno dei pentaleghisti?”.

 

Lo spunto è parziale, va bene, però viene da chiedersi: ma esiste una classe intellettuale meridionale all’altezza della situazione? Che tipo di consapevolezza o di visione d’insieme possiede – non l’ultimo professore precario della Buona scuola, o l’ultimo dei blogger, ma un esponente di spicco dell’editoria – di quel che serve all’Italia? Al nord per continuare a correre tirandosi dietro il resto, e al sud per non sprofondare. C’è un intero paese che vuole uscire a capofitto dall’Europa, e ancora stiamo a parlare di un secessionismo dei “ricchi” cui non crede più manco Salvini? Qualcuno lo capisce, al Sud che è la parte dell’Italia più a rischio, che questo modo di ragionare – niente riforme e nuovo assistenzialismo – è quello che ha consegnato l’Italia (non solo del sud) ai Cinque stelle? Eppure Alessandro Laterza vive nella regione di Michele Emiliano, il paladino di un “federalismo” ruffiano. Avrebbe di che preoccuparsi di “quel” Pd, soprattutto.

 

Il rapporto Svimez 2018 da poco presentato parla di una parte d’Italia che ancora non ha recuperato nemmeno, quanto a occupazione, i livelli pre crisi. L’emorragia di giovani istruiti, sempre in base ai dati di Svimez, è costante. Ma non è una “fuga di cervelli” – espressione già di per sé falsa nonché stupida, usata per indicare giovani laureati che vanno a occupare posti prestigiosi nel mondo del sapere globale: no, è proprio un’emigrazione interna verso un curriculum purchessia. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Bari alla Fiera del Levante un mese fa, ha detto che “questo governo presta molta attenzione al Sud: vogliamo fare del Mezzogiorno il laboratorio di un nuovo intervento pubblico in economia, magari attraverso la Cassa depositi e prestiti”. E’ questo il nuovo meridionalismo che serve all’Italia tutta intera?

 

Persino Svimez, in qualche passaggio del suo rapporto, anziché spronare a fare meglio sembra paradossalmente sposare i toni della lamentela. A proposito dei flussi di spesa pubblica a favore delle regioni meridionali, scrive che non sono “il segnale di una dipendenza patologica del Mezzogiorno” perché in realtà ci sono anche “corposi trasferimenti di risorse a vantaggio del Nord”, nel senso che “il Mezzogiorno è un primario mercato di sbocco dell’industria settentrionale” e che “l’emigrazione di giovani meridionali… alimenta l’accumulazione di capitale umano nelle regioni settentrionali”. Va bene, tutto giusto e ben calcolato, per carità. Soltanto che, posto così, pare un ragionamento rivendicativo: è come rassegnarsi al fatto che il sud conti semplicemente perché è un mercato para-coloniale per il nord.

 

Non passa giorno che sui giornali si leggano questi tipi di lamentele, è come se il pensiero del sud, del suo ceto intellettuale, si sia uniformato al modello Saviano. O peggio ancora al modello Pino Aprile, il bestsellerista di libri come “Terroni” che da anni rispolverano e riverniciano in chiave populista vecchi cliché sul Meridione depredato. Un amalgama di rancore, di isolazionismo, di revisionismo storico gonfiato a livelli di fake news. Un pensiero che ha fomentato negli anni l’incanaglirsi di posizioni antagoniste e che alla fine ha regalato il sud al populismo dei Cinque stelle, al miraggio del reddito di cittadinanza. A un ribellismo sguaiato, nullista. Pino Aprile, dopo il 4 marzo aveva detto: “Hanno vinto perché ci siamo rotti i coglioni”.

 

Persino certe difese dell’alterità di un sud “accogliente” che hanno accompagnato il caso Riace hanno assunto questa venatura da secessione dal resto del mondo (un mondo che corre da un’altra parte) che è una visione distorta dei fatti. Una sorta di terzomondismo autoctono. Quella di un meridionalismo inteso come “campo antagonista” è una storia lunga, bisognerebbe lasciar da parte i tardi emuli come Pino Aprile e tornare a maître à penser come il giornalista polemista Nicola Zitara, indimenticato autore di “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia” e al suo meridionalismo separatista e indipendentista. Ma era la Calabria degli anni 70, una differente epopea ideologica. Oggi, più che una classe culturale moderna, sembra di avere a che fare con una classe di intellettuali della Magna Grecia, per citare la mitica definizione che l’Avvocato coniò per Ciriaco De Mita.

 

Così, mentre ci domandiamo perché al nord la Lega sia quotata al 48 per cento, dovremmo anche chiederci le ragioni per cui da Roma (compresa) in giù l’Italia sia finita in mano ai grillini. O a masanielli come De Magistris o Emiliano. Nel 2013, al culmine della crisi, Svimez scrisse che il Suditalia era come la Grecia. Invece di prendersi risposte serie, si prese gli applausi dei secessionisti, pure del nord. Siamo rimasti alla rivolta di Reggio Calabria, un mostro politico. Il tutto condito dalla visione para-mistica di un meridionalismo come “mediterranismo”, un appartenere idealizzato al sud del mondo. Qualcosa che assomiglia al Tropicalismo brasiliano degli anni 70, ma almeno quello faceva bella musica.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"