Congresso Magistratura democratica, Piergiorgio Morosini (LaPresse)

Per Morosini (Md) nel Csm c'è un “problema di classe dirigente”

Annalisa Chirico

Già tre anni fa la toga di di Magistratura democratica spiegava al Foglio la commistione tra politica e magistratura, lo strapotere delle correnti e il vero funzionamento delle nomine. Ora, dopo il caso Palamara, si può gridare “Il Re è nudo”

“Il linguaggio è spesso lo specchio dell’anima”, dice il gip Piergiorgio Morosini nel corso di un convegno palermitano sulla separazione delle carriere. La toga di Md, che fino a nove mesi fa sedeva nel plenum del Consiglio superiore della magistratura, commenta le intercettazioni fuoriuscite dalla inchiesta per corruzione a carico del pm Luca Palamara, e definisce “preoccupanti” le espressioni emerse al punto di sollevare un “problema di classe dirigente”: “Quando assistiamo alle nostre campagne elettorali – si domanda Morosini – riusciamo a stare attenti ai contenuti di quelli che si candidano?”.

   

Per molti versi, l’ex consigliere togato, che rischiò di essere espulso da Palazzo de’ marescialli per un improvvido colloquio con il Foglio in cui non lesinava aspri giudizi sul governo di Matteo Renzi e rivendicava l’impegno militante della sinistra giudiziaria contro il referendum costituzionale, può essere considerato la Bocca della Verità in carne e ossa, il primo “disobbediente” che, forse in un eccesso di foga o di confidenza con il nostro quotidiano, si lasciò andare a dichiarazioni ardite sulla commistione tra politica e magistratura, sullo strapotere delle correnti e su come funzionano per davvero le nomine degli uffici direttivi in base alle regole attuali. “Non vedo l’ora di tornare in trincea – confidava il magistrato – Qui è tutto politica. La politica entra da tutte le parti: le correnti, i membri laici (quelli eletti dal Parlamento, dovreste vedere come sono compatti in tempi nazareni…), dall’esterno, da tutte le parti. Persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”.

  

Alla luce delle rivelazioni odierne, quel colloquio, mai smentito, assume tutt’altro rilievo. Morosini aveva puntato il dito contro un sistema arcinoto, fondato sulle trattative e sugli scambi tra fazioni togate e politiche, un meccanismo che aveva fatto eleggere lui stesso nell’organo di autogoverno. All’epoca, tuttavia, i tempi non erano ancora maturi per gridare: “Il Re è nudo”, e sopratutto non si tenevano i dopocena in compagnia di un “Cavallo di Troia”. Argh.