Via d’Amelio, a Palermo, dopo l’attentato al giudice Borsellino. Due sentenze hanno dato una lettura diversa dei motivi che spinsero la mafia a uccidere il magistrato (foto LaPresse)

Il giudice e la piazza

Riccardo Lo Verso

Le prospettive opposte delle sentenze Mannino e Trattativa svelano la metamorfosi di una giustizia che da formale si fa sostanziale

Si assiste alla metamorfosi della giustizia, che da formale si fa sostanziale. Una giustizia che antepone il costume sociale alla norma giuridica. Laddove per costume sociale si intende l’approccio fideistico alla dottrina della trattativa Stato-mafia.

 

Le motivazioni del processo palermitano chiuso con condanne pesantissime si presentano, innanzitutto, come un vestito comodo per chi ha postulato l’esistenza dello scellerato patto fra mafiosi e istituzioni.

 

Poco importa che sia soltanto una sentenza di primo grado, dunque appellabile e ribaltabile. Men che meno che in altri processi, questi sì definitivi, siano state sancite verità opposte e insuperabili. L’importante è che una Corte di assise abbia confermato che Trattativa ci fu per scatenare la corsa a ribadire l’appartenenza al partito dell’“avete visto, avevamo ragione noi”.

 

Hanno condannato gli esecutori ma hanno assolto il mandante. Per conto di chi i carabinieri abbiano trattato resta un mistero

Noi chi? La platea è ricca è include anche agendisti rossi, complottisti, giornalisti e dietrologi. Insomma, tutti coloro che hanno accolto, appunto, la tesi della Trattativa come un atto di fede. Agli imputati come il generale Mario Mori, che sarebbe stato l’artefice del misfatto, toccherà l’onere di difendersi in appello non solo dalle accuse di questo processo, ma pure da quelle che altrove sono state cancellate da assoluzioni definitive. La sentenza della Corte presieduta da Alfredo Montalto ha dato fiato alla piazza. In un’Italia dove ha ragione chi alza la voce lo slogan “fuori la mafia dallo Stato” è divenuto di uso comune, masticabile come un chewingum.

 

E’ inutile spiegare che le accuse di oggi sono in gran parte le stesse di ieri, solo che adesso vengono inserite in un quadro complessivo. Vecchie prove che assumono una luce diversa. Alla luce del “siccome esiste la Trattativa” tutte le altre spiegazioni, seppure plausibili, a nulla valgono. Non importa che Mori sia stato assolto definitivamente per la mancata perquisizione del covo di Riina in via Bernini a Palermo e per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, episodi ritenuti tappe decisive della Trattativa. Non vale neppure che sia stato assolto Calogero Mannino, considerato l’uomo che avviò il patto perché temeva di essere ammazzato. Nel suo caso l’assoluzione è di primo grado, quindi un giorno potrebbero anche avere ragione i pubblici ministeri che hanno proposto appello.

 

Il futuro è un’ipotesi. A oggi più che con una contraddizione ci si deve confrontare con la negazione della logica. Hanno condannato gli esecutori materiali della Trattativa, ma hanno assolto il mandante. Per conto di chi gli ufficiali dei carabinieri abbiano trattato, d’altra parte, resta un mistero.

 

A Palermo le conclusioni si raggiungono muovendo da una premessa dentro cui la stessa conclusione è implicita

Le due sentenze – Trattativa e Mannino – offrono due prospettive opposte, non solo negli esiti processuali, ma pure nel metodo. Secondo Marina Petruzzella, il giudice che ha assolto l’ex ministro democristiano, con tanto di richiamo alla giurisprudenza della Cassazione “ogni episodio va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo, onde potere poi ricostruire organicamente il tessuto della storia racchiuso nell’imputazione”.

 

Se così non si fa, “il semplice assemblaggio o la mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto”. Di fronte a “elementi di sospetto, che non abbiano quindi una grave e autonoma natura indiziaria, se invece considerati come se possedessero tali connotati, possono prestarsi a interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive dello specifico valore dimostrativo processuale”.

 

La valutazione non può essere elastica. Il plausibile non è certo. Una spiegazione non univoca diventa equivoca. Il risultato è una giustizia dai verdetti palindromi che dicono tutto e il contrario di tutto, che si prestano a spiegazioni opposte. E’ una giustizia in cui pure le sentenze passate in giudicato diventano carta straccia. Però stanno lì e prima o poi qualcuno dovrà pur valutarle per spiegare come siano state superate. Scarno appare, al momento, il tentativo della Corte di assise di Palermo che, pur non volendo entrare nel merito di una sentenza passata in giudicato, parla di “grave anomalia e condotta improvvida” per definire “l’unico caso nella storia della cattura dei latitanti in cui non sia stata perquisita la casa”. E cioè la villa dove Totò Riina trascorse l’ultima parte della sua latitanza. Mori “non ha mai dato una spiegazione convincente”. Sarà anche vero, ma neppure la Corte, con tutto il rispetto che le va riconosciuto, approda ai confortevoli confini che superano il ragionevole dubbio. Ecco infatti la conclusione: “Non può farsi a meno di saldare l’anomalia alla Trattativa. Pur in assenza di qualsiasi preventivo accordo si voleva lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento o alla riapertura del dialogo nel senso del superamento dello scontro frontale di Cosa nostra con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e via D’Amelio”.

 

Stessa cosa per il caso di Mezzojuso. La conclusione a cui giunge il collegio presieduto da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille, è che “la condotta omissiva di Mori non è incompatibile con quanto accaduto nel biennio 1992-93”, e cioè con la Trattativa.

 

Una giustizia dai verdetti palindromi, in cui pure le sentenze passate in giudicato diventano carta straccia

Siamo nel pieno di quella elasticità del plausibile di cui parla il giudice Petruzzella. La stessa elasticità che rende equivoca anche la conclusione sulla strage di via D’Amelio. La Corte di assise sostiene che sia “logico ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare con la strage di via D’Amelio quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato e ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili”.

 

Una conclusione per esclusione. Siccome si esclude che la mafia avesse deciso di uccidere il magistrato per l’indagine “mafia e appalti” a cui stava lavorando nel luglio del ’92, a questo punto l’unica risposta plausibile è che Borsellino avesse scoperto il dialogo segreto fra boss e istituzioni, la cui esistenza viene data per certa. Eppure poco tempo fa a Caltanissetta, nel processo Borsellino quater che ha sbugiardato pentiti e magistrati, un’altra Corte di assise è giunta alla conclusione opposta. Fu l’inchiesta “mafia e appalti” a provocare la morte di Borsellino.

 

A Palermo ha trionfato il metodo deduttivo della giustizia, dove le conclusioni si raggiungono muovendo da una premessa, dentro cui la stessa conclusione è implicita. Più delle prove contano i fatti e l’interpretazione che di essi si è data in nome del popolo italiano. E allora quale migliore contesto di una Corte di assise, con una cospicua componente di giuria popolare, per offrire appunto al popolo la più attesa e confortevole delle sentenze.

 

Oggi più che mai si comprende l’importanza della mossa iniziale della Procura di Palermo. Di per sé la minaccia a corpo politico dello Stato, questo è il reato della Trattativa, con una pena massima prevista di sette anni, sarebbe stata materia da Tribunale. I pubblici ministeri, però, si giocarono la carta della connessione teleologica con l’omicidio di Salvo Lima. Il delitto dell’eurodeputato, contestato al solo Bernardo Provenzano con l’aggravante di averlo commesso per eseguire la minaccia che portò alla Trattativa, ha ancorato il processo in Corte di assise. Provenzano è morto prima di rendersi conto che senza di lui il vuoto sarebbe rimasto incolmabile.

 

Equivoca anche la conclusione sulla strage di via D’Amelio. Più delle prove contano i fatti e l’interpretazione che se n’è data

E’ solo un’ipotesi, una delle tante. Come quelle del processo Trattativa, dove il plausibile assurge, però, al gradino più alto delle certezze. C’è un passaggio delle motivazioni in cui la Corte individua “il punto di svolta del declino mafioso” dell’ala corleonese e stragista di Cosa nostra. E cioè il mancato attentato allo stadio olimpico di Roma del gennaio 1994. L’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, che quell’ennesima strage avevano fortemente voluto, avrebbe visto subentrare “i residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca”, i quali “per fortuna di questo Paese” difettavano “dell’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva”.

 

E’ in questo passaggio che le motivazioni affondano nelle sabbie mobili delle contraddizioni. Si legge, infatti, che “la storia non si fa con i se”. La storia no, ma i processi sì. E’ la Corte a sottolineare che “le risultanze di questo processo – e della ricostruzione storica sottesa – inducono fortemente a ritenere tuttavia che quella strage, se fosse riuscita avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare di fronte alle sempre più pressanti richieste provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana”.

 

Dal gradino più alto della certezza, passando per la categoria intermedia del plausibile, si scende a quella più bassa del sotteso. Manca all’appello un ultimo aggettivo, “inconsapevole”. Uno dei momenti chiave della Trattativa viene considerata, nel novembre ’93, la scelta di non prorogare oltre trecento decreti di carcere duro, il 41 bis che tanto spaventava e spaventa i mafiosi, da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che la sua fu una decisione presa “in piena autonomia” perché nulla sapeva di trattative in corso. La Corte nelle pagine della motivazione dimostra di credere alla buona fede di Conso, “non v’è alcuna ragione di dubitarne”.

 

E dunque? La presenza costante e ingombrante di Mori consente di superare l’impasse. Nella ricostruzione della Corte, infatti, sarebbe stato il generale a tracciare la strada per fermare le bombe offrendo con la mancata proroga del carcere duro un messaggio distensivo ai mafiosi. Mori fece giungere il suo suggerimento alle orecchie di Conso attraverso il vice-capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio. Di Maggio, nell’architettura della Trattativa, diventa il mediatore inconsapevole giacché è la stessa Corte di assise a sostenere che non c’è prova della sua “consapevolezza della Trattativa”. Niente prove, dunque, ma intuizioni. Legittime, ma equivoche. La metamorfosi è compiuta.