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La riflessione

Hamas e gli altri, perché i simbolismi del Male vincono ancora

Guido Vitiello

Se come scrive Kundera la maturità si misura attraverso la capacità di resistere ai simboli, l'umanità sempre più giovane ha ben poco da sperare per il futuro

C’è una pagina di Milan Kundera a proposito dei “Sonnambuli” di Hermann Broch – l’ha rievocata giorni fa Matteo Marchesini nella sua rubrica per RadioRadicale, “Critica e militanti” – che aiuta a raccapezzarsi nelle reazioni seguite al pogrom del 7 ottobre, e a trovare un bandolo nello sconcerto che molti di noi hanno provato dinanzi all’apparente incapacità di tanti amici e conoscenti, che pure stimavamo, di trovare un posto a quelle atrocità fra i propri pensieri e i propri sentimenti. Dice Kundera che i personaggi di Broch – e noi come loro – sono bambini smarriti in una foresta di simboli. Si illudono di agire sulla realtà; di fatto, non fanno che reagire a una trama di associazioni simboliche per lo più irrazionali: se un uomo me ne ricorda un altro che è stato in passato causa di sventure, anche l’incolpevole nuovo arrivato sarà investito di ostilità e diffidenza.


L’osservazione ha un’immediata ricaduta politica. Kundera – le sue note sono del 1986 – scrive infatti che la Russia comunista ha vinto, insieme alla Seconda guerra mondiale, anche la guerra dei simboli, e che da allora per decenni ha saputo distribuire le carte simboliche del Bene e del Male presso moltitudini di persone dal debole discernimento morale: “Ecco perché vi sono manifestazioni di massa spontanee contro la guerra nel Vietnam e non contro la guerra in Afghanistan. Vietnam, colonialismo, razzismo, imperialismo, fascismo, nazismo: sono tutte parole che si rispondono come i colori e i suoni nella poesia di Baudelaire, mentre la guerra in Afghanistan è, per così dire, simbolicamente muta, in ogni caso al di là del cerchio magico del Male assoluto, geyser di simboli”. Ma le vittorie sul terreno dei simboli sono ben più durature delle vittorie militari. Così oggi passiamo attraverso i pilastri viventi di un’altra foresta, che sussurrano in un solo respiro un’altra e altrettanto confusa sciarada – Israele colonialismo razzismo imperialismo fascismo nazismo. Non c’è machete argomentativo così affilato che possa spezzare questi intrichi associativi, che anzi si arricchiscono di altri rami (il patriarcato per esempio, che oramai si innesta ovunque). Nello stesso spirito il grande sovietologo Alain Besançon – la cui morte, lo scorso luglio, è passata pressoché inosservata – sosteneva che la più grande vittoria del regime russo è consistita nell’imporre al mondo la propria classificazione dei regimi politici: da destra a sinistra, nell’ordine: fascismo, democrazie borghesi, comunismo, quando un criterio più sensato avrebbe consigliato di accostare i due gemelli eterozigoti del totalitarismo. 


Entrambi, Kundera e Besançon, si erano avvicinati, pur senza formularla in modo esplicito, a una grande verità: in breve, le ideologie funzionano come succedanei di massa delle antiche arti della memoria. La foresta di simboli di cui parlava Kundera ricorda, più che la natura selvaggia, un palazzo della memoria cinque o secentesco. Come i sistemi mnemotecnici di una lunga tradizione, le ideologie forniscono a chi le adotta non tanto dei simboli del bene e del male, quanto dei luoghi immaginativi – i loci memoriae – in cui riporre infallibilmente le nuove informazioni. Questo spiega in parte perché la cultura marxista abbia saputo produrre un gran numero di ingegni accademici dall’erudizione sbalorditiva e intimidatoria, malgrado l’occasionale ottusità: quando si ha a disposizione un palazzo della memoria ben costruito, arredarlo è relativamente facile; al contrario, il povero scettico che deve soppesare tra le mani ogni nuovo fenomeno, incerto sul dove sistemarlo, si ritrova dopo decenni di studio in una stanza disordinata da scapolo impenitente.

Il guaio è che una volta accomodata la propria mente alla planimetria di un palazzo della memoria, una residenza confortevole e intellettualmente appagante, diventa difficile trovare la via d’uscita. E forse valuteremmo con più apprensione lo stato corrente dei campus americani – e a breve, chissà, delle nostre università – se capissimo che non è in gioco soltanto l’infatuazione passeggera per qualche idea in voga, ma l’erezione di un nuovo palazzo della memoria ideologico che sembra aver pronta una casella per tutto lo scibile. Osservate quegli strani diagrammi circolari che passano sotto il nome di Wheel of Privilege and Power, nei quali le diverse categorie (razza, sesso, disabilità, eccetera) sono ordinate secondo il loro grado relativo di oppressione intersezionale. Ebbene, basta scrollare via la patina dell’attualità per ritrovare, quasi immutate, le “ruote mnemoniche” della “Ars memoriae” di Giordano Bruno. Le ondate ideologiche passeranno, ma la loro risacca ci lascerà in eredità molte, troppe menti modellate su quei diagrammi. Menti che sapranno incasellare a colpo sicuro tutti i nuovi fenomeni che registrano, a costo di fraintenderli sistematicamente, e che si condanneranno a non percepire le tragedie, simbolicamente mute, per le quali il diagramma non ha approntato una casella. È presto per scampanare a lutto. Ma la chiusa della nota di Kundera – “(Il criterio di maturità: La facoltà di resistere ai simboli. Ma l’umanità è sempre più giovane)” – non fa ben sperare sui nostri tempi immaturi.

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