E' stata decisa la composizione della catena di comando della missione Irini, che dovrà assicurare l'embargo in Libia (foto LaPresse)

La missione europea per la pace in Libia non piace in Libia

Luca Gambardella

Scarso peso politico e obiettivi militari difficili da raggiungere. E ora anche le proteste di Tripoli, che dice di non volerla così come è. Ecco perché Irini nasce zoppa. L'Italia intanto si aggiudica (quasi tutto) il comando

Lo scorso 2 aprile il ministro degli Esteri del governo di unità nazionale di Tripoli (Gna), Mohamed Taher Sayala, aveva ribadito per telefono all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, che “il traffico di armi via aria e via terra in Libia va fermato per impedire la strage di civili innocenti”. Borrell aveva tranquillizzato Sayala e gli aveva detto che sapeva delle armi inviate dalla Russia e dagli Emirati arabi uniti al suo rivale Khalifa Haftar. Il giorno precedente, il diplomatico spagnolo aveva dato il via a Irini, la missione aeronavale varata dall’Ue per bloccare i traffici di armi in Libia. Ma secondo il premier del Gna Fayez al Serraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, la missione europea avrebbe colpito solo i traffici di armi provenienti dalla Turchia, che avvengono soprattutto via mare, ignorando invece quelli via aerea e terrestre usati dagli alleati di Haftar. Ieri il premier libico ha scritto una lettera al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e al Parlamento europeo con molte critiche indirizzate a Irini: “Il Gna non è stato consultato – dice Serraj – Non ci aspettavamo che i paesi dell'Ue non distinguessero tra aggressore e vittima, schierandosi con l'aggressore e stringendo la morsa sul Gna”. Ma secondo un alto diplomatico europeo “Serraj fa pretattica: gli basterebbe chiedere anche l’intervento terrestre e quello aereo e gli sarebbero forniti”.

 

 

Fino a ieri la missione europea Irini, che in greco significa “pace”, era considerata un progetto militare fragile. Ora vive anche su un paradosso politico che rischia di delegittimarla, in cui il governo di Tripoli – l’unico riconosciuto dall’Ue – rifiuta l’operazione ideata dalla stessa Ue che dovrebbe sostenerlo. Secondo Jalel Harchaoui, ricercatore della Conflict Research Unit del Clingendael, un istituto di ricerca con sede all’Aia, il Gna teme che Irini sia ideata per colpire solamente il suo grande alleato, la Turchia: “Borrell ha sempre condannato le violazioni di Ankara in Libia ma ha ignorato i traffici aerei e terrestri di Emirati, Egitto e Russia che sostengono Haftar. Questo penalizza la credibilità della missione”. Ma non c’è solamente la debolezza politica: “L’Ue non è mai stata un attore rilevante dal punto di vista militare. Né tantomeno può esserlo ora per fermare la Turchia, un paese della Nato. Le navi europee potrebbero creare qualche difficoltà in più ad Ankara nel fare arrivare le armi a Tripoli e Bengasi, ma difficilmente riusciranno a cambiare il corso degli eventi”, spiega Harchaoui.

 

 

Intanto, a un mese dall’avvio della missione, gli stati europei hanno finalmente raggiunto l’accordo sulla catena di comando di Irini. Sarà ancora quasi tutta italiana: oltre all’operation command (che come annunciato sarà il contrammiraglio Fabio Agostini) e a un vice francese, sarà italiano anche il force commander. Dopo una lunga trattativa, i greci hanno invece ottenuto il chief of staff. Secondo Nikos Meletis, corrispondente diplomatico dell’emittente di stato greca Ert, Atene aveva fatto pressioni per ottenere qualcosa in più: comando generale e quartier generale a Creta, che invece resterà a Roma: “La Grecia voleva essere certa che Irini fosse usata contro la Turchia che minaccia i suoi interessi nel Mediterraneo”, dice Meletis. Atene guarda con preoccupazione ad Ankara nel Mediterraneo orientale, soprattutto dopo che lo scorso dicembre i turchi e il Gna di Tripoli hanno siglato un accordo sui confini delle rispettive zone economiche esclusive. L’intesa permette ad Ankara di compiere esplorazioni di giacimenti di gas nelle acque rivendicate dalla Grecia, a sud di Creta. Sul fronte degli asset da impiegare, finora l’intesa raggiunta tra gli stati europei riguarda la disponibilità di sette aerei, un sottomarino, due squadre di assaltatori (boarding teams) a alcune unità navali, oltre a circa 400 uomini offerti dalla Germania.

 

Nel frattempo in Libia Haftar ha incassato una serie di sconfitte molto pesanti sul terreno: a ovest di Tripoli, le milizie fedeli a Serraj sostenute dai turchi hanno riconquistato centri strategici come Tarhouna, Sorman e Sabratha. “Serraj dovrebbe essere soddisfatto perché l’offensiva contro di lui è fallita – dice al Foglio una fonte diplomatica europea – Ora deve capire che prima o poi i rubinetti delle armi devono chiudersi e che questo è il momento di riprendere a trattare con lo spirito della Conferenza di Berlino”. Ma gli altri interlocutori stranieri, in particolare quelli che sostengono Haftar, credono al contrario che qualsiasi soluzione diplomatica sia fuori discussione. Lo pensano in particolare Russia ed Emirati, che continuano a sostenere il generale della Cirenaica con ponti aerei che dal Golfo Persico portano armi a Benghazi. “Haftar è indebolito, ma non è ancora sconfitto. Non è una guerra che può essere vinta o persa – dice Harchaoui – Continuerà ancora, almeno finché gli attori esterni non smetteranno di interferire”.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.