Xi Jinping in visita a Wuhan

Per tutti quelli che elogiano sognanti il modello cinese: leggete qui

Giulia Pompili

La visita di Xi Jinping a Wuhan gronda trionfalismo e anche in Italia molti ripetono: sono i migliori. Il pacchetto autoritario

Roma. Xi Jinping è arrivato a Wuhan. La visita ufficiale, la prima dall’inizio dell’epidemia di nuovo coronavirus, era attesa da giorni e ieri mattina l’agenzia di stampa Xinhua celebrava il leader cinese, che ha visitato uno degli “ospedali costruiti in tempo di record” – con una mascherina professionale sul volto, e a distanza di sicurezza – e ha fatto un giro nella città, la capitale della provincia dello Hubei, la più colpita dal contagio e in lockdown da fine gennaio. Secondo i media ufficiali Xi è “molto preoccupato” dal virus, ma la sua visita arriva al terzo giorno consecutivo di zero casi in Cina e soltanto 17 nuovi contagi a Wuhan. Più di un mese fa, all’inizio dell’emergenza, il governo centrale di Pechino aveva inviato in quest’area il premier Li Keqiang, e neanche una settimana fa c’è stata la visita della vicepremier Sun Chunlan, abbastanza controversa: i media, perfino quelli ufficiali, hanno dato spazio alle proteste delle persone che urlavano “è falso! E’ tutto finto!” al passaggio della potente Sun, intendendo che la città non era stata per niente amministrata con l’organizzazione impeccabile propagandata. “E’ stata aperta un’indagine”, ha scritto il Global Times: ancora una volta il segno che per tutto quello che non ha funzionato, durante questa emergenza, Pechino è intenzionata a dare la colpa alle autorità locali.

  

 

E’ per questo che la visita del presidente – e di questo presidente, che ha costruito intorno a lui una narrazione potente e salvifica – ieri ha avuto un significato diverso. La presenza di Xi è usata per galvanizzare, per sollevare il morale, per mostrare la presenza del governo centrale nelle aree più devastate. Ma soprattutto per celebrare l’impresa cinese, senza ombri o macchie. Sin dall’inizio, Xi ha usato il “sacrificio” dei cittadini dello Hubei – un sacrificio portato a termine con metodi che conosciamo bene perché la Cina li usa spesso, anche per motivi politici, e sono metodi autoritari – e ha costruito attorno al contagio una narrazione epica: il virus è il “diavolo che si nasconde” e che va combattuto. Questo tipo di propaganda funziona benissimo, soprattutto all’estero. Da giorni si sente elogiare il modello Wuhan, mentre l’Italia vive una epidemia molto simile a quella cinese, però gestita da un governo democratico che non solo non prende a cuor leggero delle decisioni che restringono le libertà personali dei cittadini ma che ha anche dei vincoli economici da rispettare. La frase però è sempre la stessa: avete visto? loro ci sono riusciti perché sono migliori di noi. Il leghista Michele Geraci, ex sottosegretario al Mise, ha scritto in un editoriale sul China Daily che “la Cina non solo uscirà questa emergenza sanitaria più forte di prima”. Del resto, aggiunge Geraci, “a differenza dell’Italia, in Cina si parla poco e si agisce”. Perfino il direttore del Global Times, Hu Xinjing, ieri commentava su Twitter: “Il lockdown in Italia presenta alcune differenze rispetto alla Cina. Le restrizioni sono minori nelle città italiane. Le persone non sono tenute a rimanere a casa. Gli europei preferiscono affrontare il rischio di una maggiore diffusione del virus piuttosto che sacrificare la loro libertà”. Ma è proprio questa la differenza tra un sistema autoritario e una democrazia: la capacità di garantire un sistema democratico, un dialogo per quanto possibile trasparente, perfino in tempi di emergenza (la nostra Costituzione prevede che le limitazioni sulla libertà personale possano avvenire esclusivamente per motivi di salute pubblica).

 

L’enorme sforzo compiuto dalla popolazione cinese deriva dalla grande capacità di mobilitazione di massa, dalla ricerca dell’ordine collettivo, piuttosto che il caos collettivo. Ma è la propaganda, e la strategia politica di Pechino, ad averci fatto dimenticare i dubbi sulla tempestività della risposta cinese, e soprattutto sui metodi autoritari applicati a un’emergenza di salute pubblica mondiale (non è un caso se ieri in una conversazione telefonica di trenta minuti tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’omologo cinese Wang Yi, la Cina abbia offerto aiuti materiali, da mascherine a respiratori: le crisi sono il modo migliore per far diplomazia). Eppure secondo Nicholas Bequelin, direttore dell’Asia di Amnesty international, al di là del successo nel contenere il contagio il “metodo Wuhan” ha colpito i diritti umani per via della censura, il controllo delle informazioni, per il numero di attivisti intimiditi e bloccati, per il diritto alla salute – non tutti i malati hanno avuto accesso alle cure, dice Amnesty – e per la discriminazione subita dai cinesi all’estero, ma anche per quella subita dai cinesi dello Hubei nel resto del paese. Un domani sarebbe molto facile per Xi Jinping dichiarare un’epidemia nello Xinjiang, la provincia autonoma dove vive la maggioranza degli uiguri, e replicare il metodo Wuhan. Nessuno avrebbe nulla da obiettare?

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.