(foto LaPresse)

Soldi e mobilitazione. Ecco il modello coreano che funziona contro il virus

Giulia Pompili

Non è stato necessario chiudere le città: sono bastati i controlli capillari (e la fiducia nelle istituzioni in giacca gialla)

Roma. Domenica 8 marzo l’Italia ha superato la Corea del sud come paese con il più alto numero pazienti affetti da Covid-19 dopo la Cina – cioè dove tutto ha avuto inizio. In Corea del sud il numero di contagiati continua a scendere, nonostante sia ancora altissimo: più di 7.400 persone. Il picco di contagio potrebbe essere stato superato, ha detto ieri alla Cnn il ministro della Salute sudcoreano Park Neunghoo, perché da dieci giorni il numero dei nuovi contagi continua a scendere (367 domenica scorsa, il 28 febbraio ne avevano contati 916). Ma è comunque molto presto per essere ottimisti, ha aggiunto il ministro, non bisogna abbassare la guardia perché altri focolai potrebbero venir fuori.

 

La Corea del sud non è un paese autoritario, tutt’altro. E’ una Repubblica presidenziale, la quarta economia d’Asia, un paese ipertecnologico con una democrazia vivace, un sistema di governo attentissimo alle dinamiche democratiche. E allora, al di là degli errori, dei ritardi, e delle polemiche che ci sono state anche in Corea del sud: come ha fatto la penisola, abituata a una minaccia costante ed esistenziale come quella dell’aggressività nordcoreana, al di là del Trentottesimo parallelo, a gestire il panico dei suoi 51 milioni di abitanti?

 

I vostri diritti non saranno sacrificati. In Corea del sud la società civile è tra le più attive del mondo, e insieme all’opposizione forma un impeccabile sistema di controllo delle procedure democratiche. Domenica 23 febbraio, dopo una iniziale sottovalutazione del problema – dovuta anche alla strategica alleanza con la Cina, che ha portato Seul praticamente per quasi un mese a non controllare chi rientrava dalla Cina in Corea del sud e a non emettere avvisi di viaggio – i contagi su territorio sudcoreano sono arrivati a 602. E’ stato il turning point: Moon è andato in conferenza stampa e ha annunciato lo stato d’emergenza.

 

Che però non si chiama stato d’emergenza, si chiama livello 4 di allerta. E’ una differenza sottile nella comunicazione, ma sostanziale: non siamo nel panico, al contrario, abbiamo innalzato la nostra capacità di risposta. E’ il livello più alto del sistema coreano, e vuol dire che il governo ha l’autorità di usare tutto il budget che vuole senza approvazione, emettere decreti d’urgenza, chiudere le città, limitare gli spostamenti delle persone. Il livello 4 in Corea non si raggiungeva dal 2009, l’anno dell’influenza A/H1N1. Quando il portavoce del Partito democratico al governo, Hong Ihk-pyo, ha parlato di “massimo lockdown”, l’opposizione e la società civile hanno iniziato a scaldarsi online e sui media. Subito dopo è arrivata la precisazione: “Non è un lockdown stile Wuhan”. E infatti non è stato mai usato il potere – che pure aveva il governo – di chiudere la città di Daegu, il centro del contagio sudcoreano, dove ci sono il 90 per cento dei casi.

 

Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. “Parliamo di uno sforzo su vasta scala per contenere la diffusione del virus”, ha spiegato il presidente Moon Jae-in, ma senza limitare i diritti dei cittadini. Come? Tracciando i contagiati e sanificando le aree pubbliche e i potenziali vettori, cancellando i grandi eventi e facendosi aiutare dalle Forze dell’ordine – la Corea del sud ha un enorme potere di mobilitazione perché esiste ancora il servizio militare obbligatorio. Il modello sudcoreano è partito subito: sebbene le autorità chiedessero alla popolazione di restare a casa, e la riapertura delle scuole sia stata posticipata, gli esercizi commerciali sono rimasti aperti, il servizio pubblico pure, insomma la regione – e l’intero paese – non è stato messo in quarantena. Questo ufficialmente, perché in pratica, grazie alle esperienze pregresse – soprattutto quella della Mers nel 2015 – la Corea ha sviluppato un creativo sistema di controlli, quindi di deterrenza. E’ arrivata a fare anche 17 mila tamponi per il nuovo coronavirus al giorno. Ci sono posti di blocco per strada, come quelli per i controlli sulla guida in stato di ebrezza. I medici fermano, controllano la temperatura, fanno il test. Di ogni persona che risulta positiva si riesce a tracciare i movimenti. Quando qualcuno non ricorda, oppure mente, le autorità ricostruiscono tramite telecamere, gps, movimenti delle carte di credito (in Corea nulla si paga contanti) gli spostamenti. E se una persona che deve stare in isolamento – anche solo per attendere il risultato di un test – va a farsi un bulgogi al ristorante, rischia il carcere. Altre misure riguardano la costante sanificazione e disinfezione delle aree pubbliche (se un contagiato è stato in un ristorante, il ristorante chiude e viene sanificato, e viene fatto il tampone a tutti i dipendenti). E poi ci sono i malati: anche quelli con sintomi o con nessun sintomo ma che rischiano di infettare i conviventi vengono accompagnati in strutture di isolamento. Un ospedale militare vicino Daegu è stato ri-attrezzato in tre giorni per far spazio ai nuovi arrivi. Insomma, Daegu è una città in quarantena, ma una quarantena de facto, e non imposta per decreto. Non è stato necessario chiudere la città, i treni passano in orario, anche se sono vuoti. Nessuno esce se non per lo stretto necessario, in attesa che la situazione migliori.

 

Un governo in giacca gialla. Come ha ricordato Suki Kim sul New Yorker, l’elezione di un ex avvocato per i diritti umani, Moon Jae-in, tre anni fa, arrivò in un momento di scarsissima fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Ma soprattutto di chi le rappresenta tutte, il presidente. C’era stata la tragedia del traghetto Sewol, trecento ragazzini morti in mezzo al mare, e poi la corruzione dell’allora governo di Park Geun-hye, che fu messa sotto impeachment dopo manifestazioni di piazza con milioni di persone. Moon arrivò promettendo che la Casa Blu, cioè il palazzo presidenziale di Seul, sarebbe diventata la “torre di controllo” delle emergenze nazionali. Quando è iniziata l’emergenza coronavirus, come in tutte le emergenze, i membri del governo e delle istituzioni hanno indossato la giacca gialla. E’ il simbolo della risposta del governo alle emergenze. Non c’è occasione pubblica, in questi giorni, in cui un membro del governo non si faccia vedere in giacca gialla. L’Assemblea nazionale ha chiuso soltanto 24 ore per la sanificazione dovuta a un caso di coronavirus. Poi tutti i parlamentari sono stati controllati, e l’Assemblea ha riaperto. Le istituzioni non si sono fermate.

 

La politica che va a vedere le cose. Il presidente Moon Jae-in in questi giorni non si è fermato un attimo. Sempre in giacca gialla, il 25 febbraio, due giorni dopo aver innalzato l’allerta al massimo livello, Moon è andato in visita a Daegu, l’epicentro dell’epidemia sudcoreana. Lì ha spiegato meglio le misure di controllo e contenimento, ha messo a disposizione budget e personale, ma soprattutto ha annunciato che il primo ministro, Chung Sye-kyun, si sarebbe trasferito lì, a coordinare l’emergenza della metropoli di Daegu e nell’intera provincia del Gyeongsang del nord. Nei giorni successivi ha visitato un centro di quarantena di Seul, e soprattutto una fabbrica di mascherine. Le mascherine chirurgiche ormai sono in razionamento in Corea del sud, e il governo ha chiesto alle fabbriche di raddoppiare la produzione – lavorando giorno e notte.

 

La politica sfrutta l’occasione. “Cooperazione e coordinamento tra governo centrale e autorità locali sono necessari per prevenire la diffusione della malattia”, diceva Moon già all’inizio di febbraio. Come in tutti i luoghi del mondo, anche in Corea del sud la politica sfrutta l’emergenza per capitalizzare consensi e visibilità. Senza confondere l’opinione pubblica però. Per esempio, il governatore della provincia del Gyeongsang del nord, Lee Jae-myung, del Partito democratico, sta salendo molto nei consensi, ed è il principale rivale di Moon per le primarie democratiche. Così come pure Ahn Cheol-soo, medico e leader del partito d’opposizione People’s Party, che si è arruolato insieme con sua moglie tra i volontari negli ospedali di Daegu. Non ha mai criticato l’azione di governo, ma racconta ogni giorno ai giornalisti cosa succede nella prima linea.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.