Emergenza Coronavirus rivolta nel carcere di San Vittore (LaPresse)

Si scrive carcere si legge democrazia

Claudio Cerasa

La nostra idea di libertà, il confine del garantismo, la capacità di voler giustizia senza farsi giustizia. Perché le rivolte nelle carceri, causa virus, sono la spia di un problema che riguarda prima non solo i detenuti ma la salute del nostro sistema democratico

Lo stiamo vedendo tutti in questi giorni: un paese che viene travolto da una crisi improvvisa, come quella che sta vivendo in questo momento l’Italia, tende a ritrovarsi nelle stesse condizioni in cui si trova il corpo di un essere umano che per troppo tempo ha sottovalutato i malanni del suo organismo. E per quanto possa essere duro ammetterlo, l’economia a un passo dal collasso – le Borse ieri hanno perso l’11 per cento, più del post 11 settembre – e il sistema carcerario a un passo dalla crisi – tra sabato e lunedì ci sono state molte proteste nelle prigioni italiane, per via del timore delle restrizioni legate al coronavirus, e a Modena sono morti sette detenuti – sono due immagini tanto drammatiche quanto simmetriche, che in modo spietato mostrano i punti deboli del nostro sistema democratico.

 

L’immagine dell’economia, con i crolli che abbiamo visto, è un’immagine fredda che ci ricorda che un paese instabile, con una bassa crescita, un alto debito e una bassa produttività è un paese che cammina su un filo, dove camminare su un filo vuol dire doversi aspettare che un qualsiasi colpo di vento possa far ammalare il nostro organismo. L’immagine delle carceri in fiamme, con le misure di protesta andate in scena ieri in mezza Italia – con proteste che, come si può vedere sul sito del Foglio, si sono verificate tra domenica e lunedì anche nelle carceri di Poggioreale (Napoli), Frosinone, Vercelli, Alessandria, Palermo, Bari, Foggia, Pavia, Milano, Roma, Trani, Secondigliano, Rieti e Bologna, con picchi di tensione ulteriore registrati domenica sera nella Casa circondariale di Torre del Gallo, a Pavia, dove alcuni detenuti hanno sequestrato per un’ora due agenti della polizia penitenziaria – è un’immagine più calda, più profonda, forse persino più importante, perché le carceri non sono solo il luogo della detenzione, ma sono il luogo in cui si vanno a incrociare alcuni valori non negoziabili della nostra democrazia. Nel rapporto che ciascun cittadino ha con la parola “carcere” c’è il confine della nostra idea di libertà, c’è il confine della nostra idea di diritto, c’è il confine della nostra idea di garantismo, c’è il confine della nostra idea di rieducazione, c’è il confine della nostra capacità di volere giustizia senza volerci fare giustizia.

 

Le carceri italiane, da questo punto di vista, sono lo specchio di una democrazia molto ammalata prima ancora dell’arrivo drammatico del coronavirus, e un paese che tende a considerare normale avere nelle proprie 200 carceri un tasso di affollamento ufficiale pari al 121 per cento (61.230 detenuti a fine febbraio) con picchi del 202 per cento (come a Como e a Taranto) e con un 27,3 per cento di istituti in cui i detenuti hanno meno di tre metri quadrati di superficie calpestabile ognuno (condizione che come ci ricorda periodicamente l’associazione Antigone vìola l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibisce la tortura e i trattamenti disumani e degradanti) è un paese che ha scelto ormai da tempo di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi più profondi.

 

Mauro Palma, garante per i diritti dei detenuti, dice che “in troppi istituti sta passando un messaggio che non corrisponde alla realtà dei provvedimenti presi, perché si parla di blocco dei colloqui mentre nel decreto sono solo sospesi i colloqui diretti fino al 22 marzo, sostituiti se possibile dai colloqui via Skype e dall’aumento delle telefonate”, e ha ovviamente ragione. Ma quando un paese sceglie di chiudere gli occhi di fronte a chi sparge benzina, quel paese non può purtroppo stupirsi se una scintilla anche casuale si trasforma in un incendio. Vale quando si parla di economia, vale quando si parla di carceri. Incrociamo le dita.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.