La polizia in tenuta antisommossa schierata davanti al carcere romano di Rebibbia per fronteggiare la protesta dei famigliari dei detenuti (foto LaPresse)

Il virus come scintilla per la Caporetto del sistema penitenziario

Adriano Sofri

La parola d’ordine d’oggi, Diradare, ha in galera il suo contrario forzato: il Mucchio

Domenica 8 marzo. La domenica è il giorno più triste in galera. Non ci sono colloqui coi famigliari, non ci sono attività sociali. C’è la messa, quando va bene, accoglie tutti, credenti e no, cristiani e musulmani. Per il resto, mera giacenza. Domenica ci sono state ribellioni in decine di carceri. “Ci sono stati sette morti”: così, come in un sotto-bollettino clinico. Sette morti collaterali di coronavirus, e 18 detenuti ricoverati in ospedale. Una volta entrato nelle prigioni, il Covid-19 dilagherebbe: il contagio della ribellione prova, ad armi impari, a tenergli testa. E’ dilagata nel giorno in cui ministri annunciavano il carcere per i cittadini a piede libero che trasgredissero alle restrizioni sui movimenti. 

 

 

 

Il carcere? Quello in cui sono accatastate 61.230 persone (persone) rispetto a una capienza teorica di 47.231 posti? In Lombardia ci sono 8 mila detenuti su 6 mila posti (teorici): aggiungetene un po’, a Lodi, in particolare. Un posto in galera oggi vale quasi quanto un posto in terapia intensiva. L’accanimento terapeutico del sistema penitenziario è meraviglioso. Portavoce di sindacati della polizia penitenziaria, che conoscono la galera e ci vivono da semiliberi, hanno avvertito: “Non si dica che quanto sta accadendo è per il coronavirus, ma è con il coronavirus, perché il grave stato emergenziale che attanaglia le carceri, i detenuti e chi vi opera, c’è da troppo tempo e solo l’improvvisazione di chi ha il dovere di gestirle politicamente, per conto dei cittadini, poteva non prevedere quello che sta accadendo in queste ore” (De Fazio, UilPA).

 

E’ la Caporetto dell’amministrazione penitenziaria, dice Franco Corleone, che ne aveva anche lui avvertito. Il virus è la scintilla: come stare chiusi a doppia mandata durante un terremoto devastante e però lunghissimo. La sospensione dei colloqui, dei permessi, del lavoro esterno, dei rapporti col mondo. Qualcuno è evaso, ieri, per essere subito ripreso – riacciuffato, come dice il tic lessicale dei conduttori – qualcun altro ci ha provato: non era il punto. Piuttosto, lo è la risalita sui tetti, a sventolare lenzuoli e alzare pugni, con facce giovani coperte da un fazzoletto come per una mascherata simbolica, non per celarsi ma per farsi vedere. Abitatori del sottosuolo che si arrampicano al cielo, e si fanno per un’ora monumenti alla libertà. E anche, come a San Vittore, citazioni di altri tempi, altre rivolte, le prime che annunciarono che anche nei luoghi chiusi e dannati la vita continuava. La cima dei tetti è il ripudio e l’apoteosi dell’evasione.

 

 

Da tanti anni la resistenza del carcere a condizioni invivibili e così riconosciute e certificate da tutti, aveva preso solo due forme: la nonviolenza, cui l’avevano lungamente educata Marco Pannella e i suoi e tante altre eroiche associazioni volontarie civili, ostacolate e intimidite metodicamente; e la disperazione solitaria, l’autolesionismo, i suicidi tentati e riusciti, le aggressioni cieche. Se no, l’inerzia ottusa di una condizione in cui guadagnarsi un metro e 80 centimetri di distanza l’uno dall’altro, un metro di distanza dal lavandino al water, era una bella utopia. Vedrete, quando sarà possibile sapere e fare un bilancio, che alla “sommossa” non partecipano tanto, né la animano, “quelli che non hanno niente da perdere”, i detenuti con le pene più pesanti e con l’adattamento più forte alla reclusione, ma quelli, la gran maggioranza, che sono giovani e hanno tutto da perdere, cui spesso restano pene brevi. E anche chi sia prossimo a uscire può esser trascinato, dall’impulso alla ribellione, a fare come i suoi compagni, cui l’umiliazione quotidiana lo unisce e lo assomiglia. Hanno poco di cui disporre le rivolte carcerarie.

 

Il fuoco, i pagliericci incendiati, le bombolette di gas dove non sono state vietate, il fumo che li intossica, il clangore dei ferri battuti, inversione collettiva del rito che più volte al giorno avviene alle finestre delle loro celle in memoria di Montecristo, i lenzuoli, appunto, adibiti a striscioni piuttosto che a cappii da impiccati, e cose da sfasciare: gli ingredienti di ogni ammutinamento quando la disciplina di bordo sia diventata insopportabile e lo scorbuto infierisca. Le vaghe e reticenti notizie di ieri dicevano di alcuni dei detenuti morti per aver ingerito farmaci, oppioidi, benzodiazepine, sottratti alle infermerie interne: tale dunque è la popolazione del carcere, pronta alla morte, non per la libertà, per la sopraddose. Rita Bernardini, che sia lodata, vuole riproporre obiettivi come l’amnistia che non hanno alcuna possibilità di realizzarsi. Ma ricorda che in carcere ci sono migliaia di persone cui resta da scontare meno di un anno, migliaia con meno di due anni e migliaia fra i due e i tre anni: cui sarebbe stato ragionevole, e tanto più è ora, applicare pene alternative che la legge prevede. La parola d’ordine inesorabile del mondo che fino a ieri si credeva libero, Diradare, Distanziare, ha nel carcere, che è in larga misura un orribile cronicario, il suo contrario forzato: il Mucchio. Non è difficile da capire. Ma il cielo mette fuori di senno coloro di cui vuole la rovina.

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