Un'immagine di archivio con la polizia austriaca impegnata nei controlli al confine con l'Italia (Foto LaPresse)

Schengen non verrà sospeso ma ciascuno in Ue cerca le sue soluzioni

Micol Flammini

La Commissione mette a disposizione del denaro e chiede di essere solidali. Precauzioni e metodi degli altri paesi

Roma. Non c’è stata richiesta da parte di nessun paese europeo, quindi il trattato di Schengen non verrà sospeso a causa della sindrome simil-influenzale da coronavirus. Le frontiere rimarranno aperte, ma potranno esserci controlli, come è successo sul Brennero domenica, quando l’Austria ha fermato il traffico ferroviario dei treni provenienti dall’Italia per due casi sospetti. Ieri la Commissione europea ha deciso di stanziare 232 milioni di euro per contenere l’epidemia a livello globale e per non lasciare indietro paesi con sistemi sanitari più deboli. Il commissario per la Salute, Stella Kyriakides, e il commissario per le emergenze, Janez Lenarcic, hanno detto che la collaborazione tra i paesi membri rimane una priorità, nessuna chiusura, le frontiere tra stati europei rimangono europee. Hanno chiesto di evitare il panico e la disinformazione, e di non cambiare nulla nel rapporto con l’Italia, primo stato membro a registrare un aumento rapido di contagi e di morti.

 

Dopo il fallimento del vertice straordinario di Bruxelles, dove i capi di stato e governo dei ventisette paesi europei si erano riuniti per trovare un accordo sul budget pluriennale 2021-2027 e ne sono usciti più disuniti che mai, il coronavirus rischiava di diventare un ulteriore elemento di divisione con frontiere chiuse, quarantene forzate e respingimenti. La Commissione è intervenuta per far sentire la risposta europea alla crisi, che richiede la “cooperazione dell’intera comunità”, ha detto Lenarcic. Poi saranno i singoli paesi a cercare le loro risposte sanitarie per contenere l’epidemia, ma Bruxelles ha chiesto che siano risposte “proporzionate e coordinate”.

 

La Francia è pronta alla mobilitazione, aumenterà il numero di tamponi, il ministro della Salute Olivier Véran domenica ha detto che fino allo scoppio della crisi in Italia la Francia ne ha effettuati almeno 400 al giorno, il numero verrà aumentato: “Migliaia al giorno”. Verranno predisposte nuove strutture per i pazienti, tutta l’Europa si sta preparando a un numero crescente di malati, trovare lo spazio è una delle prima preoccupazioni. Di chiudere le frontiere, richiami populisti a parte, Parigi non ha intenzione: “Un virus non si ferma alla frontiera”, ha detto Véran.

 

Anche Jens Spahn, ministro della Salute tedesco e tra i contendenti alla leadership della Cdu di Angela Merkel, ha detto che la Germania non sta pensando a chiudere i confini, “non ha senso che un singolo paese prenda delle misure in un continente che non prevede frontiere tra la maggior parte delle nazioni”. Berlino aumenterà i controlli, la Baviera ha già chiesto a tutti i cittadini che tornano dall’Italia di segnalarlo, ma Spahn ha detto che la Germania non prenderà una decisione da sola, “non ha senso!”, il ministro sarà a Roma per coordinarsi con il governo italiano martedì. Non tutti hanno avuto le stesse reazioni e alcuni paesi europei si sono dimostrati molto più nervosi di Francia e Germania. L’Austria sta pensando a come incrementare il controllo lungo le frontiere senza bloccarle, con una reazione che sembra più proiettata verso l’esterno che verso l’interno: se Parigi e Berlino cercano di prepararsi, di fare il possibile per dimostrarsi pronti a un aumento dei contagi sul loro territorio, Vienna studia come lasciare fuori dai confini nazionali il virus. Una reazione simile l’ha avuta l’est: Romania, Polonia e Ungheria hanno aumentato i controlli negli aeroporti e disposto che chi arriva dalla Lombardia e dal Veneto si sottoponga alla quarantena per quattordici giorni. C’è chi si guarda dentro e chi si guarda fuori. L’Ue ieri ha mandato un segnale, non può intervenire nelle politiche di ciascun paese, ma può dirigere, consigliare, e anche da questo si intravede la forza di un continente.

 

La Gran Bretagna, sempre più distante da ogni tipo di discussione europea, ha comunque preso le sue precauzioni: ieri il governo ha detto di aver effettuato fino al 23 febbraio 6.324 tamponi, di questi 6.315 sono risultati negativi. Scrive Sirin Kale sul Guardian che il popolo britannico da quando sente parlare di Brexit ha un suo modo di prepararsi alle crisi: accumula, stipa, immagazzina. James Blake, proprietario della catena Emergency Food Storage UK che rifornisce il continente europeo di cibo in periodi di emergenza, ha detto al giornale che riceve ordini dagli inglesi da gennaio, da quando il coronavirus sembrava essere soltanto un affare cinese.