Wilbur Ross al summit di Bangkok (foto LaPresse)

Che cosa succede se Trump molla l'Asia

Massimo Morello

Al Summit di Bangkok gli interessi comuni prendono il posto del concetto di “unità”. L'Asean in equilibrio tra Cina e India, che sfruttano l'assenza americana

“La geografia come destino”. E’ un’idea deterministica che sembrava superata dalla globalizzazione, dalla connettografia. In un “mondo piatto”, i destini degli uomini non potevano dipendere da uno spazio delimitato da precise coordinate. Poi, inesorabile, è arrivata “La vendetta della geografia”, evocata da Robert Kaplan: “La cartina orografica del globo”, secondo quell’esperto di politica internazionale, è anche la mappa per prevedere guerra e pace, scontri, declino e ascesa di civiltà.

 

Se ne è avuta la plastica rappresentazione a Bangkok, dove si è svolto il 35° vertice dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean). Dal 31 ottobre al 4 novembre la capitale thailandese è stata il centro dell’Indocina, che sempre più sembra essere lo strumento di quella vendetta.

 

Il termine Indocina, che riecheggia l’epoca coloniale, in realtà ha una profonda connotazione geografica: quella penisola del sud-est asiatico che con l’arcipelago Indonesiano s’interpone tra l’Oceano Indiano e il Pacifico formando un gigantesco ponte tra l’Asia continentale l’Australia e le isole del Pacifico. E’ qui che, in diverse fasi si sono incontrate e scontrate etnie e culture d’origine indiana e cinese, con successive influenze islamiche. Ne sono tracce i monumenti di antiche civiltà spasi sulle coste del Golfo del Bengala e del Mar cinese meridionale o sulle rive dell’Irrawaddy, il Chao Praya e il Mekong, i tre grandi fiumi che attraversano l’Indocina da nord a Sud. La geografia fisica del territorio, che va dalla fascia pre-himalayana a quella subequatoriale, il sovrapporsi di popoli giunti da nord e da ovest in ondate successive (sino a quella coloniale) hanno creato un confuso mosaico di nazioni che sembravano destinate a fare da comparsa nel Grande Gioco che di volta in volta si ripropone tra le potenze dominanti il pianeta, tessere di un domino, come vennero definite durante la Guerra Fredda.

 

L’Indocina si è incarnata oggi proprio nell’Asean (solo le Filippine non rientrano in questa dimensione fisico-geografica) e qui, come nel samsara delle dottrine orientali, riproduce su scala storica l’eterno ciclo di vita, morte e rinascita. L’Indocina, quella che si è manifestata nel Summit dell’Asean, ancora una volta è all’incrocio di due civiltà (che oggi definiremmo meglio come “potenze”): quella cinese e quella indiana. Oggi, però, l’Asean non vuole più essere territorio d’incontro o scontro. “Tra le nazioni del sud est asiatico va rafforzandosi l’idea che l’obiettivo comune non è tanto l’unità, quando l’accettazione di un interesse comune”, dice al Foglio Larry Jagan, giornalista inglese che è uno dei più acuti osservatori dell’area. Il paragone che fa è con il Movimento dei paesi non allineati che negli anni della Guerra Fredda cercò una posizione autonoma rispetto ai blocchi occidentale e orientale. A differenza di quel movimento, troppo disomogeneo, l’Asean rivendica una geografia comune: quella asiatica, appunto. Ed è in Asia che cerca, e trova, nuovi alleati, quali Giappone o Corea del sud (e magari anche la Russia in dimensione eurasiatica) che possano bilanciare il peso di Cina e Russia. L’Asean, insomma vuole diventare protagonista di quello che è stato definito “Il nuovo secolo asiatico”.

 

Il presidente americano Trump ha dato l’ultima decisiva spinta verso questo spostamento tettonico della geopolitica contemporanea. Dopo il ritiro dal Tpp, la Trans-Pacific Partnership, il trattato di libero scambio con i paesi dell’area Pacifica Asiatica, Trump si è sempre più allontanato dall’Asia, quasi a voler rimarcare la differenza dalla politica estera di Obama (e della Clinton) che ne aveva fatto il proprio “pivot”, il fulcro. Al “Pivot to Asia” ha sostituito la Indo-Pacific Strategy, correttamente interpretata solo in funzione anti-cinese, marginale e superficiale per le nazioni dell’Asean.

 

Il Summit di Bangkok ha trasformato quest’emarginazione in una frattura forse insanabile. Trump, infatti non vi ha partecipato, ma soprattutto ha mandato una delegazione, composta dal consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien e dal segretario per il Commercio Wilbur Ross, considerata di basso profilo. Per molti osservatori locali, estremamente attenti alla forma, è stata un’offesa. “Una delegazione che ha rinforzato la percezione che Trump guardi altrove, che l’architettura regionale per la pace e la stabilità non sia importante per la sua amministrazione”, ha scritto Thitinan Pongsudhirak, il più accreditato esperto di politica internazionale thailandese. Opinione sottoscritta da Kantathi Suphamongkhon, ex ministro degli Esteri thai. A pochi tempo dal tradimento dei curdi, la politica di Trump in Asia ha fatto risorgere la metafora maoista della “Tigre di carta”.

 

“Trump non ha una visione politica sottile. Per lui non esiste la politica del win win”, dice Jagan. “Sì, lo so, questa è una visione molto asiatica. Forse è una mia deformazione”. La politica del win win, in cui non ci sono sconfitti e da cui tutti traggono vantaggio è davvero insita nella filosofia asiatica. Nei loro interventi al Summit di Bangok sia il primo ministro indiano Narendra Modi sia quello cinese Li Keqiang vi hanno fatto esplicito riferimento. Il che significa che India o Cina non puntano a un predominio sull’Indocina quanto a una limitazione della reciproca influenza e per questo possono prendere in considerazione accordi a medio termine. 

 

Le lunghe discussioni sulla Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – gli accordi di libero scambio tra Asean, Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda – sono la perfetta manifestazione delle sottigliezze della diplomazia asiatica cui fa da macroscopico contrasto le guerre commerciali dichiarate da Trump. “Secondo me la Rcep ci ricorda che il mondo non sta aspettando gli Stati Uniti, ma sta andando avanti senza di noi”, ha detto Jonathan Hillman del Center for Strategic and International Studies di Washington. Una volta definita, la Rcep comprenderebbe il 60 per cento dell’economia globale, ma è ritardata dalle discussioni tra Cina e India riguardo l’accesso ai rispettivi mercati. A Bangkok speravano che si potesse raggiungere un accordo durante il Summit mentre sembra che bisognerà attendere il 2020. In compenso il premier Modi ha dichiarato che il suo paese è disponibile a incrementare i rapporti economici con l’Asean.

 

Un progresso sembra essere stato fatto anche sull’altro grande tema di disputa tra Cina e Asean: le reciproche rivendicazioni sul Mar cinese meridionale. Per quanto le tensioni si siano recentemente aggravate tra Cina e Vietnam, i negoziati per elaborare un Codice di condotta sembrano procedere e il premier Li Keqiang ha riaffermato la centralità dell’Asean per poter raggiungere un accordo entro il 2021. E’ una vera concessione che probabilmente è determinata da quello che si preannuncia come un nuovo ostacolo sulle vie della seta: la “Indo Pacific Vision”. Non quella di Trump, che è una strategia, bensì quella indiana: una visione. Basata su una sempre più forte cooperazione nella connettività marittima in cui l’Asean, ancora una volta, svolga un ruolo centrale. Idea che trova un fortissimo sostegno da parte di Singapore e dell’Indonesia, che si richiama al cosiddetto “Empire of the winds”, il ruolo del grande arcipelago sulla scena mondiale.

 

Singapore e Indonesia, a loro volta, potrebbero anche essere i partner asiatici per quel “Free and Open Indo-Pacific” evocato nel 2016 dal premier giapponese Shinzo Abe che era stato inglobato nella strategia del presidente Trump. Il Giappone, del resto, ha l’ambizione di assumere un ruolo sempre più forte nello spostamento in Asia dell’economia globale. Lo dimostra la stessa presenza di Abe al Summit di Bangkok, ma soprattutto i pesanti investimenti giapponesi nei paesi dell’Asean. In Indonesia, dove hanno superato quelli cinesi, e in Birmania, dove Tokyo ha silenziosamente rimpiazzato Pechino quale “migliore amico”. Ormai lontani i tempi, tra il 2011 e 2013, in cui Hillary Clinton e Aung San Suu Kyi apparivano legate da una relazione di sorellanza.

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