Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro giapponese Shinzo Abe (foto La Presse)

Possiamo dire bye bye all'alleanza tra America, Giappone e Corea del sud. La Cina esulta

Giulia Pompili

Che cosa significa per Hong Kong se i tre alleati più forti dell’Asia orientale litigano tra di loro, mentre l’America non fa altro che chiedere soldi

Roma. Sembra una riunione di condominio in cui tutti litigano, e nel frattempo il palazzo accanto triplica gli abusi edilizi. Un diplomatico spiega con questa immagine il caos in Asia, dove America, Giappone e Corea del sud, i tre paesi che da settant’anni tengono in piedi un complicato equilibrio di forze, da quasi un anno non fanno che litigare. E mentre la tradizionale alleanza tra Washington, Tokyo e Seul si logora sempre di più, a guadagnarci è la Cina, più potente e più influente a livello internazionale di quanto non lo sia mai stata. Anche così si spiega la situazione a Hong Kong, e la libertà di Pechino di piegare a suo piacimento l’accordo del 1997 con la Gran Bretagna che avrebbe dovuto garantire ampia autonomia all’ex colonia inglese. Da mesi la comunità internazionale assiste alle manifestazioni in strada e all’escalation di violenza da parte delle forze dell’ordine, ma “tutte le carte in mano ce le ha comunque Pechino”, dice la fonte diplomatica. E sottolinea il fatto che in mancanza di un fronte unito e focalizzato sulla risoluzione del problema (“e Hong Kong è un problema comune per America, Giappone e Corea, soprattutto per via del business che hanno lì”) la Cina riceve condanne sparse, dichiarazioni ufficiali e politiche, ma non molto di più. Anche l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act approvato ieri dal Senato americano è poco più che un gesto simbolico, perché se volesse, il governo americano avrebbe già i poteri per sospendere lo status di economia preferenziale. Ma Washington, Tokyo e Seul tra di loro hanno problemi troppo grandi, troppo interni, e che influiscono in modo sostanziale sull’opinione pubblica.

 

Ieri per esempio è fallito il terzo round di negoziati sulla divisione dei costi per le truppe americane nella penisola coreana. E’ una fissazione del presidente americano Donald Trump, che da quando è arrivato alla Casa Bianca domanda a Tokyo e Seul di pagare di più per il servizio svolto dai soldati americani nel Pacifico. Però ogni volta i negoziatori americani arrivano al tavolo con un prezzo più alto. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha dedicato quasi l’intero mandato alla riconciliazione con il Nord, si trova in una strana situazione: ha facilitato il primo summit tra Trump e il leader nordcoreano Kim Jong Un, ha fatto da ambasciatore e da mediatore tra Washington e Pyongyang, e ora non solo dovrebbe pagare di più per la sicurezza fornita dall’America, ma è tornato al punto di partenza anche con i nordcoreani. Il Nord ha infatti chiuso ai negoziati “finché l’America non mette fine alla sua politica ostile”, e ha ricominciato i test missilistici con una frequenza inquietante. Venerdì scorso una ventina di studenti universitari sudcoreani ha tentato un assalto alla residenza dell’ambasciatore americano a Seul, Harry Harris, al grido di: vattene da qui. 

 

Domani scade il General Security of Military Information Agreement, un accordo con cui Giappone e Corea del sud condividono essenziali informazioni di intelligence. Ad agosto il governo della Corea del sud aveva minacciato di non rinnovarlo, in attesa di un negoziato costruttivo con il Giappone, che però non ha ancora portato ad alcun cambiamento nelle rispettive posizioni. La relazione tra Tokyo e Seul è arrivata al suo momento peggiore sin dagli anni Sessanta, e il decadere di un così importante patto di condivisione “rischia di minare le fondamenta di un coordinamento essenziale per la relazione tra America, Giappone e Corea”, ha scritto Victor Cha del Center for Strategic and International Studies. Perché quelle informazioni riguardano non solo la Corea del nord, ma soprattutto la Cina, e quello che l’intelligence internazionale sa della Cina. Scrive Marcus Noland dell’East West Center che la tensione diplomatica tra Corea del sud e Giappone ha origine “nel nazionalismo che ha avuto conseguenze diverse nei due paesi”: in Corea è evocato dalla sinistra al governo, in Giappone dai conservatori del primo ministro Shinzo Abe, che ieri è diventato il più longevo capo di governo del Giappone moderno. Un anno fa Tokyo e Seul hanno ricominciato una guerra ideologica di revisionismo storico, di compensazioni dovute alle vittime dell’imperialismo giapponese e di vecchi accordi non riconosciuti dall’Amministrazione sudcoreana. Dopo poco per la prima volta il Giappone ha deciso per una rappresaglia, iniziando una specie di controllo dell’export coreano. In pratica una guerra commerciale su scala ridotta. In questo stallo diplomatico fomentato da un’opinione pubblica particolarmente ideologizzata, in passato la mediazione americana è sempre stata fondamentale. Questa volta l’America non ha nemmeno tentato la mediazione, ma le conseguenze del disastro tra Corea del sud e Giappone “sul lungo termine rischiano di avere un effetto sulla sicurezza nazionale americana”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.