Se “l'islamismo ha colpito da dentro la prefettura di Parigi può tutto”
L'attentato di Mickaël Harpon al quartier generale della polizia. Parla Boualem Sansal: “La democrazia senza coraggio è in pericolo di morte, il verme è nel frutto”
“L’attacco sarà ricordato come un importante punto di svolta nel terrorismo islamista”, spiegava ieri al Figaro lo studioso di islam e jihadismo Gilles Kepel. Il terrorismo islamico stavolta non ha usato armi da fuoco e l’obiettivo e le vittime non erano bambini ebrei a scuola (Tolosa), vignettisti (Charlie Hebdo), famiglie in festa per la Bastiglia (Nizza) o giovani a un concerto (Bataclan). Ma il luogo dell’attacco jihadista è stato molto più spettacolare e inquietante dei precedenti: “L’interno del quartier generale della polizia di Parigi dovrebbe essere un bastione: è il simbolo dell’ordine pubblico in Francia e della lotta anti jihadista che è stato scosso”, continua Kepel. Con la sua “radicalizzazione latente”, Mickaël Harpon, l’autore della strage costata la vita a quattro colleghi poliziotti, funzionario di polizia addetto all’antiterrorismo in uno dei luoghi più protetti e sensibili della Repubblica, convertito all’islam nel 2008, sposato con una musulmana nel 2014, prima di massacrare quattro colleghi con il coltello (a una ha tagliato la gola) aveva condiviso su Facebook un video in cui un imam spiegava l’importanza e la bellezza di morire da martire per Allah. Mickaël Harpon aveva aderito a “una visione radicale dell’islam”. Le parole di Jean-François Ricard, magistrato della Procura nazionale anti-terrorista, ventiquattro ore dopo l’attacco, confermano lo scenario più temuto dai servizi: il nemico interno. Secondo il procuratore, le indagini hanno permesso di stabilire anche “contatti tra l’autore e diversi individui che appartengono al movimento islamista salafita”.
Lo 007 informatico Harpon era stato assunto nel 2003 presso un dipartimento che aveva fra le sue priorità la lotta contro il “terrorismo, in particolare l’islamismo radicale”, secondo il sito web della prefettura. In una “scena di estrema violenza”, secondo l’autopsia, Harpon prima ha ucciso Damien E., un maggiore di cinquant’anni, e Anthony L., di trentacinque. Poi ha ucciso Brice L., di trentasette. Ha sceso le scale, dove ha tagliato la gola alla trentaseienne Aurélia T., prima di essere abbattuto dai colleghi. Una “Fort Hood francese”, dal nome della base americana dove il medico e psichiatra di origini palestinesi Nidal Hassan aprì il fuoco sui colleghi, uccidendo tredici persone.
La radicalizzazione di Mickaël Harpon, “Bernardo” per i colleghi, era emersa per la prima volta nel 2015 da osservazioni sui suoi comportamenti, soprattutto nei confronti delle donne. In una nota del 5 ottobre, la polizia aveva osservato che “Harpon non nascondeva la sua religione e non dava più la mano alle donne, ma non mostrava alcuna animosità nei loro confronti”. Il suo telefono cellulare tradisce un legame con un imam radicale conosciuto e seguito dai servizi della direzione generale della Sicurezza interna. Per il momento, l’attentato non è stato rivendicato dallo Stato islamico o da un’altra organizzazione terroristica.
Nato a Fort-de-France in Martinica, Harpon condivideva video umanitari sulla Siria e molto incitamento all’odio contro gli ebrei e Israele. L’imam della sua moschea Fauconnière a Gonesse, il marocchino Hassan El Houari, è membro del Consiglio teologico dei musulmani di Francia e condanna la strage. Dopo l’attacco al settimanale satirico Charlie Hebdo, Harpon era stato oggetto di un rapporto interno, come ha rivelato Le Parisien. Uno dei suoi colleghi ha riferito che al momento della mattanza di vignettisti Harpon aveva esultato: “Ben fatto!”. Poi si era lasciato andare a rimostranze su come “la Francia è classificata ai vertici dei paesi più islamofobi in Europa”.
Uno 007 informatico, convertito all’islam, radicalizzato e legato ai salafiti, ha ucciso quattro colleghi in uno dei siti più sensibili di Francia. Già tre anni fa, un memo della polizia aveva lanciato l’allarme sulla proliferazione islamista tra le forze di sicurezza francesi
Nel 2016, Le Parisien aveva già diffuso un memo interno sulla paura di infiltrazione jihadista nelle alte sfere della sicurezza. Canti coranici durante le pattuglie, rifiuto di partecipare a un minuto di silenzio dopo Charlie Hebdo, rifiuto di proteggere una sinagoga, incitamento a commettere attentati. Nel 2016, Jean-Baptiste Salvaing, vice comandante della polizia giudiziaria a Les Mureaux, a ovest di Parigi, e la sua compagna Jessica Schneider, segretaria amministrativa presso il commissariato di Mantes-la-Jolie, vennero uccisi nella loro casa a Magnanville da un islamista, Larossi Abballa. Tempo dopo, la polizia francese che indagava su una donna per sospetti legami con l’Isis fece una scoperta agghiacciante: la donna aveva una Usb che conteneva i dettagli personali di migliaia di funzionari di polizia francesi. “Ci sono tutte le informazioni necessarie per uccidere centinaia di agenti di polizia nelle loro case, cosa che come sapete è già successa”, dissero dalla polizia. Chi aveva dato ai terroristi quelle informazioni?
“Se non ci siamo accorti di niente di ciò che si tramava alla prefettura di Parigi è perché non abbiamo voluto accorgerci di niente. Il dénislamisme uccide”. Così scrive Alexis Brézet, direttore del Figaro. “Non vinceremo la guerra che l’islam radicale ci ha dichiarato continuando a camminare con gli occhi chiusi”. E fra gli intellettuali che gli occhi non li hanno chiusi, Brézet cita Michel Houellebecq, Alain Finkielkrait, Kamel Daoud, il direttore di Charlie Hebdo “Riss” e l’algerino Boualem Sansal.
Già alto funzionario del ministero dell’Industria, nel 1998, a guerra civile finita, Sansal pubblicò da Gallimard “Il giuramento dei barbari”. Da allora, è stato un successo letterario dietro l’altro, da “2084” all’ultimo “Treno per Erlingen”. Per molti, Sansal è il “nuovo Solgenitsin”, come nella copertina del settimanale Valeurs Actuelles. È l’intellettuale arabo che avverte l’Europa dall’interno dell’islam. Come lo scrittore russo, Sansal ha pagato un prezzo non da poco: ha perso il lavoro, la moglie non può più insegnare, da anni riceve minacce di morte, i suoi libri in Algeria sono proibiti e le sue figlie si sono trasferite a Praga.
“Questa è una nuova dimostrazione che l’islamismo è padrone in Francia, colpisce chiunque vuole, quando vuole, dove vuole” dice Sansal al Foglio. “Ha colpito all’interno della polizia, domani se vuole potrà farlo all’Eliseo, a Matignon, all’Assemblea nazionale, nell’esercito, in una centrale nucleare, in una scuola. La Francia non ha modo di combattere contro l’ideologia islamista e nessuno riesce a concepire l’espansione dell’islam nel quadro della democrazia laica e liberale. Mentre l’islamismo e l’islam hanno tutti i mezzi per realizzare il loro progetto come ritengono opportuno”.
Molti temono che il sistema sia eroso dall’interno. “Il verme è nel frutto, in tutto l’albero, in tutta la società. Lo diciamo da molto tempo, ma la Francia è come quei malati che si rifiutano di riconoscere di essere malati perché è vergognoso essere malati, stigmatizza e incita i predatori ad attaccarti. Ma la malattia, alla fine, termina”.
I media, specie fuori dalla Francia, sull’attacco di Parigi sono apparsi subito molto assenti. “I media sono i principali responsabili di questa situazione. Appartengono a uomini d’affari che pensano prima ai loro interessi e solo dopo a quelli del loro paese”. Sansal teme per il proprio paese d’adozione. “La Francia è in declino a tutti i livelli, da molto tempo, e non può più fermare questo declino e tornare a essere la potenza che era, non è più che un vassallo senza onore di Arabia Saudita, Qatar, Iran, Cina. Trova la sua felicità perché il vassallo è liberato dall’obbligo di riflettere, assumersi la responsabilità e agire. Obbedire è un piacere come ha detto La Boetie nel suo meraviglioso ‘discorso sulla sottomissione volontaria’”.
Qualche giorno fa, su Arte, è apparso un documentario di due giornalisti, Christian Chesnot e Georges Malbrunot, che hanno puntato gli occhi (come avevano appena fatto in un loro libro) sul Qatar e su come cerca di influenzare l’islam europeo. “L’Arabia Saudita e il Qatar sono oggi grandi potenze, si sono imposti sulla scena internazionale, trattano alla pari con i grandi (Stati Uniti, Russia, Cina), hanno sviluppato zone di influenza e dominano molti paesi deboli (in Europa, in Africa…)”, continua Sansal nel suo dialogo col Foglio. “Ora hanno grandi obblighi di potere in tutto il mondo. Questi due paesi si comportano come profeti secondo cui Allah avrebbe scelto di portare la sua Parola in tutto il mondo per convertire anime buone e punire i non credenti, ebrei e cristiani. Credono davvero e profondamente di essere gli strumenti di Allah, la loro energia deriva da questa convinzione”.
Mancano in Europa voci autorevoli e forti che risveglino le coscienze. “Non c’è nessuno, ecco perché questi paesi sono in pericolo di morte. La democrazia, quando non ha valore morale, né coraggio, è un veleno che distrugge la società dall’interno”. Gli ebrei francesi sono in uno stato di assedio, timore, apprensione per il loro futuro. Tanti se ne sono andati, tanti ci stanno pensando, tanti altri nascondono i propri simboli e identità.
“Nel corso della storia, abbiamo osservato questo fenomeno: quando gli ebrei iniziano a lasciare un paese, significa che il paese è malato e che presto morirà. Sono il barometro perfetto dello stato di salute di un paese. Questo deriva dalla loro storia, dall’essere una minoranza molto fragile, che ha sviluppato in loro un istinto molto forte che li fa sentire il pericolo prima degli altri, come i cavalli che sentono che si verificherà un terremoto e che fanno di tutto per liberarsi e sfuggire dalla stalla dove sono rinchiusi”.
Il settimanale Le Point ha appena pubblicato una indagine sensazionale su come, dal 1989 al 2019, le nuove generazioni islamiche francesi abbiano abbracciato la religione, l’ortodossia, su come rifiutino la laicità e quindi l’Europa. “Hanno raggiunto il palcoscenico in cui si vergognano di nascere in questo codardo occidente. Lo odiano e vogliono distruggerlo o conquistarlo per rigenerarlo, per convertirlo nei valori di virilità, combattimento, coraggio, gloria. Una religione offensiva come l’islam li riempie, dà loro quel sentimento di forza, orgoglio, coraggio e sacrificio, che è così carente in occidente”.
“I giovani musulmani si vergognano di nascere nel codardo occidente. Vogliono distruggerlo o conquistarlo per rigenerarlo”. “Un tempo si diceva che l’Impero ottomano era il ‘malato d’Europa’. Oggi il malato d’Europa è l’Europa stessa”
Nel frattempo, la Francia si scristianizza e il cattolicesimo ha raggiunto lo “stadio terminale”. “La tragedia dell’occidente è quella di aver creduto che la fonte del potere fosse la base materiale, industriale, economica e finanziaria mentre era al cento per cento nei suoi valori morali e nella loro esaltazione collettiva”. Ma “occidente” come parola e destino ha ancora un senso oggi? “Da tempo l’occidente è finito, il suo declino è iniziato e sta accelerando. Il centro del mondo si è spostato, i ‘brics’ ci raggiungeranno. Oggi molti di noi lo dicono, avvertono, chiedono resistenza e rinnovamento”.
Cosa teme di più per il futuro di tanti paesi europei? “Un secolo fa – conclude Sansal – si parlava del grande malato d’Europa, l’Impero ottomano. Il passo logico successivo fu la guerra mondiale e lo smantellamento dell’Impero ottomano. Oggi la Turchia ha riguadagnato salute, forza e desiderio di conquistare, e il grande ammalato dell’Europa oggi è l’Europa stessa. Ma nella legge della vita c’è spazio solo per i forti che sanno esaltare la vita. La fine dell’occidente e delle vecchie nazioni che la compongono significa anche l’emergere di nuove nazioni giovani e forti, in grado di reincantare il mondo con la loro energia e il loro desiderio di potere e nobiltà”.
Nel suo ultimo romanzo, Le train d’Erlingen (Gallimard), Sansal ci consegna una distopia, ci parla di futuro, ma fissando l’attualità. “In nessuna parte del mondo c’era stata tanta libertà, uguaglianza, fratellanza, rispetto, amore, piacere ed eleganza nei pensieri e azioni più che nella vecchia Europa occidentale”. Eppure, era “un santuario minacciato, un paradiso perduto, assediato da un improbabile invasore”. Come il palazzo della prefettura, vicino alla cattedrale di Notre Dame quasi distrutta dalle fiamme.