Alcuni membri della società civile protestano contro l'attacco in Pakistan (Foto LaPresse)

Il massacro dei cristiani non è più solo una questione mediorientale

Egitto, Pakistan, Sri Lanka. L'islamismo è la minaccia e per la diplomazia vaticana è un bel problema

Roma. La “guerra globale contro i cristiani” (la definizione è del vaticanista americano John Allen) non è più circoscrivibile al complicato ma ridotto quadrante del vicino e medio oriente. È vero, ci sono le devastazioni di Mosul e Aleppo, ma la triste routine delle stragi pasquali che si ripete ogni anno guarda per lo più altrove. Anno 2015, Garissa (Kenya): 148 morti. 2016, Lahore (Pakistan): 75 morti e 300 feriti. 2017, Alessandria (Egitto): 45 morti. E si potrebbe andare oltre, elencando il numero delle vittime nelle Filippine e in Nigeria. L’ultimo rapporto di World Watch List attesta che nel 2018 i cristiani assassinati in odio alla fede sono stati 4.136. Un anno prima il numero si era fermato a 3.066. 245 milioni i perseguitati nel mondo. Ha ragione Francesco quando dice che “i martiri cristiani oggi sono più numerosi che nei primi secoli”. Le chiese sono l’obiettivo più facile, specie a certe latitudini, dove i cristiani sono una minoranza tra le minoranze che si raduna gioiosa nelle grandi solennità. Lo scorso Natale, mentre in Pakistan infuriava l’ira fondamentalista per l’assoluzione di Asia Bibi, il cardinale Joseph Coutts, a Karachi, celebrava la messa in una cattedrale gremita, nonostante lo sventolio di cappi appena fuori da quel luogo di culto.

 

Dopo la diplomatica “vicinanza” alla comunità cristiana colpita da questo “drammatico evento” espressa al termine della benedizione pasquale Urbi et Orbi, ieri il Papa è tornato a parlare della strage con toni ben più duri: “Sono molto vicino al mio caro fratello, il cardinale Malcolm Ranjith Patabendige Don, e a tutta la chiesa arcidiocesana di Colombo. Prego per le numerosissime vittime e feriti, e chiedo a tutti di non esitare a offrire a questa cara nazione tutto l’aiuto necessario. Auspico, altrettanto, che tutti condannino questi atti terroristici, atti disumani, mai giustificabili”, ha detto al Regina Coeli.

 

Proprio il cardinale Ranjith aveva auspicato un’indagine “imparziale” che facesse luce su quanto accaduto e una punizione “senza pietà” per i responsabili, frase durissima ma comprensibile – tranne per i cultori del pensare cavilloso che commentavano le devastazioni di Colombo tra una portata e l’altra del pranzo pasquale – se pronunciata da chi era appena stato aggiornato sul numero di corpi senza più testa e gambe ritrovati tra i banchi delle chiese. I cristiani finiscono al macello, ma il tutto viene edulcorato, come se la mattanza non avesse un risvolto religioso. Hillary Clinton e Barack Obama che non parlano di “cristiani”, ma di fedeli colpiti è solo il caso più eclatante. Tanti giornali, piccoli o grandi che siano, provano un certo fastidio a pronunciare quella parola – cristiani – quando si tratta di descrivere il massacro. “Il fatto è che per parecchio tempo un muro di silenzio ha circondato la persecuzione anticristiana”, ha scritto ancora Allen su Crux. 

 

Ciò è dovuto “in parte all’idea che si sono fatti tanti occidentali di un cristianesimo inteso come qualcosa di ricco, potente e dominante. Però questa è una visione che si può applicare alla realtà appunto occidentale, non è una costante universale”, ha aggiunto John Allen. È un colpo non da poco anche per la diplomazia della Santa Sede che proprio sul fronte del dialogo interreligioso ha in questi anni sviluppato un’azione ad ampio raggio, come testimoniano i viaggi del Papa in Egitto, nella Repubblica centrafricana, in Bangladesh, nello stesso Sri Lanka. La “condanna al dialogo”, come era solito dire il compianto cardinale Jean-Louis Tauran, è stata nel pontificato di Francesco vissuta con sforzi enormi, basti ricordare il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato negli Emirati arabi lo scorso febbraio durante la storica visita del Pontefice nel Golfo.

 

Il problema, sempre lo stesso da tempo, è la deriva radicale che vive l’islam. Diceva al Foglio l’islamologo Khalil Samir Khalil, già pro-rettore del Pontificio istituto orientale, che “la tradizione radicale è diffusa attraverso l’insegnamento degli imam, e questa è la malattia attuale dell’islam. Un secolo fa non era per niente così. L’islam era molto più aperto anche alla modernità. Oggi – dagli anni Sessanta in poi – siamo in presenza di un movimento che pretende di tornare all’origine, al momento più radicale e fondamentalista. Non serve dire che questo non è l’islam, perché non fa altro che rafforzare la corrente più fondamentalista. Bisogna dire che questo è inaccettabile. Chi lo pratica lo fa con convinzione. Chi uccide pensa di praticare l’autentico islam, e come i membri dell’Isis la pensa un terzo dei musulmani”.

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