foto LaPresse

Trump non decolla

Daniele Raineri

Nonostante la vittoria politica su Mueller, il presidente non sale (e non scende) nei sondaggi. La lotta per il documento

New York. Sono passati dieci giorni dalla lettera del ministro della Giustizia, William Barr, che scagiona Donald Trump dall’accusa di collusione con il governo russo. Ci si aspettava che la fine dell’inchiesta potesse essere l’inizio della rimonta politica per il presidente verso le elezioni dell’anno prossimo, e invece no. Le cose se possibile vanno peggio di prima. I sondaggi dicono che l’approvazione di Trump è rimasta allo stesso livello basso, attorno al 41 per cento. Fluttua di qualche decimale, ma non si sposta e non c’è nessun effetto “no collusion”. Nate Silver, un analista di sondaggi considerato molto bravo nel suo campo, dice che ci sono diversi fattori per spiegare perché. Uno è quello identitario: gli americani hanno già deciso cosa pensano del presidente e non sarà una semplice notizia a far cambiare loro parere. Votare pro o contro Trump è diventata una faccenda più ampia, ha a che vedere con le convinzioni, con le paure personali, con grandi temi come l’immigrazione, la religione e la crisi demografica e anche con il come ci si guarda al mattino allo specchio e queste cose non cambiano a causa di una semplice notizia. Il che spiega perché gli evangelici stanno senza se e senza ma dalla parte di Trump, che pure è l’emblema incarnato della decadenza newyorchese con divorzi multipli e un assortimento di relazioni scostumate. Chi sta con il presidente continua a stare con lui dentro a una bolla che non è la maggioranza del paese, chi lo detesta continua a detestarlo. E’ incredibile, notano i sondaggisti, la mancanza di variazioni nel gradimento di Trump, che è il presidente che ha oscillato meno ed è sempre rimasto all’interno degli stessi nove punti tra il suo massimo (44 per cento) e il suo minimo (36). Lo shutdown, il licenziamento del capo dell’Fbi, i giorni dei nazionalisti bianchi a Charlottesville non hanno prodotto effetti visibili. Un altro fattore è che la maggioranza degli americani, circa l’ottanta per cento nei sondaggi, non si accontenta delle quattro pagine di Barr e vuole vedere l’intero rapporto scritto da Robert Mueller, che è lungo circa trecento pagine.

 

Ieri i democratici al Congresso hanno votato una mozione che autorizza il capo della commissione Giustizia a emettere un’ingiunzione contro il dipartimento di Giustizia per ottenere il documento integro, senza censure. Il ministro Barr ha detto che lo consegnerà a metà aprile, ma prima vuole cancellare passaggi che potrebbero essere delicati perché il rapporto contiene informazioni ottenute durante molti interrogatori su una vasta gamma di argomenti. I democratici lo vogliono intero. Se Barr si rifiutasse, si aprirebbe un contenzioso che dovrà essere giudicato da una corte – ma prenderebbe del tempo. Trump ha usato toni trionfali per descrivere il rapporto e fino a qualche giorno fa diceva di non avere nulla in contrario alla sua diffusione, ma poi ha cambiato idea – e questa ritrosia, assieme alla lentezza del suo ministro della Giustizia, eccita i democratici.

 

Il presidente tuttavia ha anche un altro problema. Invece che fargli da trampolino per il rilancio politico, la fine dell’inchiesta lo ha reso ancora più impulsivo e caotico nelle decisioni. I repubblicani al Congresso sono riusciti con uno sforzo immane a fargli rimangiare l’annuncio sulla cosiddetta riforma della sanità che passa per lo smantellamento del sistema sanitario creato da Obama. La sanità è l’argomento che alle elezioni di metà mandato a novembre ha consegnato la maggioranza delle vittorie ai democratici, perché molti americani non vogliono rinunciare alle protezioni acquisite. Annunciare l’eliminazione di quelle protezioni è suonato per molti repubblicani del Congresso come una sentenza di morte politica alle elezioni del 2020 e per qualche giorno c’è stata la possibilità di uno scontro pubblico tra il presidente e il suo partito. Alla fine Trump ha detto che se ne parlerà dopo le elezioni – che comunque non è rassicurante. Negli stessi giorni, ha tagliato alcuni fondi destinati a paesi sudamericani per punirli del fatto che non fanno abbastanza per trattenere i loro cittadini dall’emigrare verso l’America, ma i paesi hanno ribattuto che senza i fondi possono fare ancora meno. L’annuncio più preoccupante riguarda la frontiera con il Messico, che Trump vuole chiudere perché pensa che non faccia abbastanza per bloccare i migranti. Il Messico ha uno scambio commerciale enorme con gli Stati Uniti, se il presidente ordinasse davvero la chiusura della frontiera l’economia americana andrebbe in asfissia nel giro di pochi giorni. La memoria va subito allo shutdown del governo, che Trump causò a dicembre perché pensava di forzare la mano ai democratici e che invece – come tutti gli avevano detto sarebbe successo – gli si ritorse contro in poco più di un mese.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)