Donald Trump in visita al confine col Messico (Foto LaPresse)

Il sud degli Stati Uniti è sull'orlo del meltdown

Daniele Raineri

Trump s’imbufalisce perché non ha ancora fatto nulla per la crisi immigrazione, che ora c’è davvero

New York. Al confine meridionale degli Stati Uniti stanno arrivando troppe persone che cercano di entrare senza autorizzazione. Molte di loro chiedono asilo e questo vuol dire che gli agenti americani seguono la procedura: le prendono in custodia, mettono i loro nomi nella lista d’attesa delle corti che dovranno decidere se meritano oppure no lo status di rifugiato e poi le lasciano libere. Dalle cinquantottomila di gennaio sono diventate centomila a marzo – c’è sempre un aumento in questa stagione perché poi diventa troppo caldo per attraversare a piedi le zone desertiche, ma quest’anno i numeri sono più alti del solito.

 

Alla fine di marzo Kirstjen Nielsen, che era il segretario della Homeland Security, ha scritto una lettera al Congresso per avvertire che il sistema al confine è sull’orlo del meltdown, agli agenti è capitato di fermare quasi cento gruppi da cento migranti che si spostavano tutti assieme e nelle strutture federali ci sono già milleduecento minori non accompagnati e seimilaseicento famiglie. Una parte del personale che si occupa della sicurezza ai punti d’ingresso tra Messico e Stati Uniti è stata spostata a seguire gli ingressi illegali e questo vuol dire che il tempo d’attesa ai varchi per automobili e camion si sono allungati anche fino a dieci ore. E’ uno stato di crisi e provoca due reazioni nell’Amministrazione Trump. Da una parte c’è euforia, perché il presidente può rinfacciare ai democratici di avere ragione, sono loro a non avere capito la situazione: c’è davvero un’emergenza come dichiarò a febbraio per ottenere un budget federale per costruire il muro al confine con il Messico. Dall’altra c’è livore, perché Trump si è fatto eleggere dicendo che soltanto lui può risolvere la situazione al confine e invece di fatto gli ingressi non autorizzati nei primi due anni del suo mandato – quelli migliori perché aveva la maggioranza al Congresso – sono aumentati. Di fatto, molta della politica del presidente è concentrata sull’immigrazione oppure ne è una conseguenza: la campagna elettorale di settembre e ottobre per le elezioni di metà mandato, lo shutdown del governo durato trentacinque giorni, i negoziati con il Partito democratico.

 

Trump vuole che la questione immigrazione definisca la sua presidenza però non ha ancora nulla di solido da mostrare e nelle ultime due settimane questo ritardo lo ha fatto imbufalire. Prima ha minacciato la chiusura totale del confine con il Messico – totale vuol dire che non passa più nessuno – se il governo messicano non ferma i migranti, ma i suoi consiglieri economici gli hanno detto che sarebbe un disastro per l’economia americana vista la quantità enorme di merci che passa per i varchi. Poi ha tagliato gli aiuti a tre stati del Centro America, El Salvador Guatemala e Honduras, anche se è stato avvertito che così il problema immigrazione verso l’America diventa peggiore invece che migliorare. Poi ha scoperto che la Nielsen era in viaggio in Europa per incontri con gli alleati europei – si occupa anche di altre cose, terrorismo per esempio – l’ha fatta tornare a metà viaggio e l’ha cacciata. Poi ancora ha dichiarato che il sistema di giudizio per decidere se un immigrato merita oppure no lo status legale di rifugiato non funziona e dovrebbe essere eliminato, come pure è necessario sbarazzarsi dei giudici. In un discorso al confine, Trump ha incolpato il giudice Flores, “chiunque egli sia”, per una sentenza del 1997 che vieta una detenzione più lunga di venti giorni per gli immigrati minorenni – ma la sentenza prende il nome da Jenny Flores, la quindicenne salvadoregna protagonista del caso. Infine ha anche annullato la nomina di Ronald Vitiello a capo della Ice, l’agenzia governativa che si occupa di immigrazione, “perché voglio qualcuno più duro” – e ha licenziato altri dirigenti vicini alla Nielsen. A questo punto ci si chiede su quali provvedimenti vuole puntare per recuperare. Giovedì il Washington Post ha scritto che per due volte negli ultimi sei mesi l’Amministrazione ha considerato l’idea di trasferire tutte le persone fermate al confine nelle città-rifugio come San Francisco, New York e Chicago, che sono le città amministrate dai democratici in cui le autorità locali non collaborano con quelle federali per deportare le persone senza autorizzazione – e Trump ieri ha confermato che ci sta pensando. Sarebbe stato un gigantesco “e allora perché non te li prendi a casa tua”, ma gli avvocati del governo hanno stabilito che non c’è una base legale per pagare il trasferimento obbligato di migliaia di persone per migliaia di chilometri al solo scopo di punire città che hanno eletto politici democratici. 

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)