Tijuana, filo spinato sul muro che divide il Messico dall'America (foto LaPresse)

"The Wall", storia di una barriera che ci parla di noi

Paola Peduzzi

Sul muro fa freddo, il tempo è fermo e non c’è salvezza, né di qui né di là

Sul muro fa freddo, il tempo è fermo, e fa freddo, le ore non passano mai e fa freddo. Sembra di starci sopra e di morire di noia e di vento gelido, sul “Wall” che dà il titolo all’ultimo libro di John Lanchester, scrittore nato ad Amburgo, cresciuto un po’ a Hong Kong e soprattutto nel Regno Unito, autore di un memoir stupendo in cui racconta i segreti di sua madre, e di altri quattro libri che hanno vinto premi e sono stati trasformati in serie tv (il penultimo, “The Capital”, uscito nel 2012 in Inghilterra, edito in Italia da Mondadori). “The Wall” è una distopia, genere letterario che in questa stagione apocalittica sembra imprescindibile, e come tutte le distopie ghiaccia il sangue, mette in fila paure e orrori e le miscela in toni e atmosfere in cui nessuno può salvarsi. All’inizio non si capisce dov’è questo muro, né nello spazio né nel tempo, e la forza di questo romanzo sta proprio nelle prime pagine in cui ti rendi conto che questo muro può essere ovunque, può essere una grande muraglia, una cortina di ferro, un filo spinato, un “bel” muro come quello che Donald Trump vuole costruire al confine sud americano, una barriera sui porti che ogni tanto si apre e lascia scendere persone con sacchettini di plastica in mano – come i migranti sbarcati a Catania dalla Sea Watch 3 – e gli occhi bassi, come fossero colpevoli loro e non chi li ha lasciati in mare per giorni e giorni, come se la disperazione fosse un reato di cui vergognarsi. “The Wall” è un muro che rappresenta tutti i muri che stiamo tirando su, fuori e dentro di noi, nella realtà, altro che distopie a sangue freddo.

 

Questo muro è stato creato dopo che è accaduto un fatto gravissimo che sempre nelle prime pagine è soltanto “the change”, il cambiamento. Anche questo dettaglio contribuisce molto al freddo che si sente su quella barriera e che sentiamo noi: il cambiamento perde la sua valenza positiva, la promessa d’amore, andrà tutto bene, e diventa distruzione, rabbia, paura. Si scoprirà che il “change” è il cambiamento climatico, che ha costretto questo paese – che è il Regno Unito – a barricarsi, pur essendo già un’isola, dietro a questo lungo muro. 

 

Un altro romanzo sulla Brexit? Non esattamente, o almeno non nei termini stretti della Brexit come divorzio inglese dall’Unione europea. Perché in “The Wall” c’è il distacco dal resto del mondo ma anche il collasso di una qualsivoglia prospettiva di apertura, e questo non è un fatto che riguarda soltanto gli inglesi. Dentro al muro si sta meglio che fuori, anche se piano piano l’equilibrio traballa, e Lanchester racconta un mondo diviso in due, quello in cui c’è ancora un residuo di libertà e di civiltà e l’altro, in cui ogni cosa è stata sacrificata in nome di una sopravvivenza che esclude tutto ciò che non è come te. Gli altri. Gli “Other” stanno arrivando, sul muro c’è agitazione, non avrete più tempo per annoiarvi dice un caporale al suo esercito di volontari civili. Gli “Other” sono quelli che arrivano dal mare e vogliono entrare, oltrepassare il muro, così disperati da desiderare di vivere in un mondo spettrale che evidentemente continua a essere migliore di quello da cui provengono. Gli “Other” vengono ricacciati via dai “Defender”, che pattugliano il muro: per ogni “Other” che ce la fa, un “Defender” viene spedito su un barcone alla deriva al suo posto, legge del taglione in versione migranti. Ma per gli “Other” la vita nel Regno è una pena, possono scegliere se morire con l’eutanasia o diventare schiavi di un popolo che combatte la fine idolatrando i “Breeder”, gli unici, i pochissimi che decidono di fare dei figli. “Abbiamo rotto il mondo e non abbiamo più il diritto di popolarlo – dice la voce narrante, Joseph Kavanagh – Non possiamo dar da mangiare e prenderci cura di tutti gli esseri umani che già ci sono, e molti di loro muoiono di fame o annegati, con che coraggio osiamo metterne al mondo altri?”. Kavanagh è stato spedito a difendere il muro, sente il freddo e sente la pressione, ma cerca di mantenere le abitudini di una vita normale, scintille di libertà, la fidanzata e la gita in campagna, ma non vede nulla per sé e per il suo futuro, annientato dal “change” che ha modificato i connotati della sua terra e dall’impossibilità di vivere barricati.

 

In “The Wall” ognuno ha visto rappresentata la propria paura, molti concordano nel dire che la distopia estrema diventa quasi ridicola, e che la passione di Lanchester per la fantascienza e i videogiochi gli ha un po’ preso la mano. Ma al di là dell’efficacia letteraria di questo libro, resta appiccicato un muro che soffoca, e non servono gli occhi di Kavanagh per vederlo: un muro è un muro, e chi ci sta sopra, chi ci sta dentro e chi ci sta fuori, tutti quanti, finiscono per essere protagonisti di una storia fatta di piccole arrendevolezze e di grandi delusioni, soprattutto di una luccicante impotenza. Non si salva nessuno con un muro, non solo nelle distopie.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi