William Barr (foto LaPresse)

Oggi il rapporto Mueller diventa pubblico (quasi)

Daniele Raineri

Tutti pronti per gli scoop o la delusione bis. Tre motivi che giustificano il clima di eccitazione

New York. Questa mattina a Washington il ministro della Giustizia americano, William Barr, pubblica il rapporto Mueller. C’è molta attesa perché il documento di 400 pagine era stato consegnato dal procuratore speciale Robert Mueller il 22 marzo ed era rimasto segreto. Due giorni dopo averlo ricevuto Barr aveva pubblicato una lettera di quattro pagine in cui riassumeva le conclusioni dell’inchiesta ma la lettera non aveva per nulla soddisfatto le aspettative dei democratici e dell’opinione pubblica. Ci sono almeno tre motivi che giustificano il clima di eccitazione che circonda il rapporto – anche se la pubblicazione non sarà integrale e ci si aspettano parecchi omissis (la “post-produzione” del rapporto da parte della squadra di Barr ha preso circa un mese). Il primo motivo è che anche se l’inchiesta di Mueller ha escluso la collusione fra il governo russo e il comitato elettorale di Donald Trump potrebbe contenere materiale molto dannoso contro il presidente americano – a diciotto mesi dalle elezioni del 2020. L’inchiesta non ha provato una collusione diretta, ma si è abbattuta sul clan Trump con effetti molto pesanti: ha confermato che ci sono state due operazioni del governo russo per aiutare Trump a vincere le elezioni e ha incriminato 34 persone, incluse dodici dell’intelligence russa e sei americani molto vicini al presidente, tra cui il suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Flynn, il suo ex direttore della campagna elettorale Paul Manafort e il suo avvocato di fiducia, Michael Cohen. Non c’è prova di collusione, ma potrebbero arrivare altri elementi sulle storie che non conosceremmo senza il lavoro di Mueller. Trump ha nascosto i suoi affari con la Russia durante la campagna elettorale – la costruzione di una Trump Tower a Mosca che avrebbe potuto fruttare trecento milioni di dollari. Paul Manafort durante la campagna ha consegnato i dati dei sondaggi elettorali – quelli specifici che sono nelle mani dei comitati elettorali – a un uomo dell’intelligence russa. Alcuni uomini del clan Trump sapevano che le mail hackerate al Partito democratico stavano per finire su internet prima che fosse una notizia pubblica. E si potrebbe andare avanti.

 

Il secondo motivo è che Mueller nel rapporto non raccomanda di accusare oppure non accusare Trump di ostruzione alla giustizia, quindi di avere attivamente ostacolato la sua inchiesta (Trump ha ammesso di avere licenziato il direttore dell’Fbi, James Comey, perché stava lavorando all’indagine sulla collusione) e lascia la questione in sospeso perché sia risolta da altri – e precisa però che non sta esonerando Trump. Non sappiamo se Mueller intendesse che la decisione finale va presa dal Congresso o dagli americani, ma sappiamo che Barr si è preso lui il diritto di decidere e ha concluso – nella sua lettera di quattro pagine – che l’ostruzione non c’è stata. E questo ci porta al terzo motivo che giustifica l’ansia per la pubblicazione del rapporto: si vuole sapere se Barr sta proteggendo molto Trump e quindi sta omettendo fatti gravi oppure no.

 

Politico spiega che di solito quando escono libri o documenti che promettono rivelazioni politiche importanti si procede con la cosiddetta “lettura stile Washington”: tutti vanno a consultare l’indice dei nomi o se hanno un formato elettronico fanno la ricerca dei nomi che interessano, trovano i passaggi che considerano più sugosi e poi decidono se polemizzare oppure no, se attaccare oppure difendersi. Ma in questo caso non sarà possibile: il rapporto dovrà essere letto tutto, passaggio dopo passaggio, perché qualche rivelazione potrebbe nascondersi ovunque. Per questo partiti, collaboratori del presidente e giornalisti hanno già formato dei gruppi di lettura in cui ciascuno si occupa di spremere una singola parte e lasciare il resto agli altri, in modo da setacciare le quattrocento pagine nei tempi brevissimi che sono necessari a battere i concorrenti su twitter e nelle interviste. Sempre tenendo in considerazione che il rapporto è stato deludente per molti già una volta, potrebbe esserlo di nuovo.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)