Il presidente Donald Trump in visita sul Lago di Okeechobee (Foto LaPresse)

La fine dell'inchiesta Mueller è l'inizio della campagna trumpiana di rappresaglia fino al voto 2020

Daniele Raineri

Il presidente al comizio elenca i nomi di chi lo ha accusato di collusione: in prigione! risponde la folla dei fan

New York. La fine dell’inchiesta del procuratore speciale Mueller non ha riportato un minimo di stabilità nella politica americana, anzi diventerà la piattaforma di lancio di una campagna del presidente Donald Trump per colpire i suoi avversari nel Partito democratico e nei media – ora che sono rimasti scoperti e più vulnerabili. Per due anni si era parlato molto della possibile collusione tra il governo russo di Vladimir Putin e Trump per vincere le elezioni 2016 e da quando domenica il ministro della Giustizia di Trump, William Barr, ha comunicato con una lettera di quattro pagine che il rapporto Mueller non prova la collusione, il presidente sta godendo un trionfo politico.

  

Il rischio di un impeachment (che già era molto basso) è sparito dall’orizzonte e chi lo accusava di tradimento è stato smentito. In realtà l’inchiesta di Mueller ha inferto danni molto gravi al clan di Trump, ha incriminato sei dei suoi collaboratori, ha dimostrato che la Russia ha effettivamente aiutato Trump a vincere le elezioni e che Trump aveva affari in corso a Mosca e non ha escluso il reato di ostruzione alla giustizia, ma lui preferisce proclamare di essere stato “TOTALMENTE ESONERATO” dalle accuse, come scrive su Twitter e come giovedì sera ha detto al suo primo comizio post Mueller.

 

Rudy Giuliani, che è uno dei suoi avvocati e consiglieri, dice alla rivista Atlantic che ora Trump non ha alcuna intenzione di lasciar cadere la faccenda e che vuole far partire una controinchiesta per attribuire responsabilità precise a chi ha fatto circolare questa storia della collusione fra i democratici e i giornalisti: “Cazzo se lo sta per fare – ha detto Giuliani – di sicuro non dirà oh è finita, vabbè allora lasciamo perdere”. 

 

Era facile immaginare che il presidente, che a marzo ha polemizzato ancora una volta con il senatore repubblicano John McCain anche se McCain è morto per un tumore ad agosto 2018, avrebbe impugnato le quattro pagine scritte da Barr come una clava contro i suoi oppositori e ne avrebbe fatto un tema della corsa verso le elezioni del 2020. Il comitato nazionale repubblicano in collaborazione con lo staff del presidente dice di avere raccolto tutte le dichiarazioni sulla collusione fatte in questi due anni da politici e giornalisti: se in futuro criticheranno di nuovo il presidente, il comitato dice di essere in grado di produrre per ciascuno di loro uno spot di trenta secondi per rinfacciare le dichiarazioni errate sulla collusione.

 

Due giorni fa a un comizio a Grand Rapids, nel Michigan, Trump ha voluto provare l’effetto che farà il nuovo tema in campagna elettorale e davanti a una folla festosa ha fatto il nome di tutti quelli che lui considera colpevoli di avere parlato di collusione. A ogni nome scandito dal presidente, i fan rispondevano: “Lock him up!”, in prigione! Ai comizi del 2016 succedeva la stessa cosa quando Trump menzionava Hillary.

 

Il presidente ha anche ordinato ai suoi di usare la fine dell’inchiesta per far dimettere Adam Schiff, il democratico capo della commissione Intelligence della Camera. Schiff aveva parlato di collusione, ma è anche il democratico che nei prossimi due anni si occuperà delle indagini che i democratici faranno su Trump grazie alla maggioranza alla Camera – e potrà chiedere documenti e testimonianze giurate. I trumpiani lo considerano un pericolo e vogliono sbarazzarsene, ma per ora lui si difende molto bene. Ieri in Aula Schiff ha risposto agli accusatori che anche senza collusione il materiale raccolto da Mueller è terribilmente imbarazzante e che se per i repubblicani “è ok” farsi proporre dai russi materiale compromettente su politici americani e tenere tutto segreto, per lui no. Nello stesso giorno il New York Times ha scoperto che il rapporto Mueller ancora segreto è di 300 pagine – contro le quattro pagine della sintesi prodotta da Barr – e in giro c’è sempre più voglia di metterci le mani sopra.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)