Mercoledì Trump ha incontrato nello Studio ovale Fabiana Rosales, moglie di Juan Guaidó (foto LaPresse)

Fuori i russi. Trump non vuole cedere a Putin nella crisi in Venezuela

Daniele Raineri

L’Amministrazione dice che i russi devono andarsene da Caracas, non ci saranno bis dello scacco subito in Siria

New York. Sabato tutti i media americani erano molto distratti dalla fine dell’inchiesta sul presidente americano Donald Trump del procuratore speciale Mueller e quindi è stato un buon momento per l’arrivo a Caracas in Venezuela di due aerei con quasi cento russi a bordo tra forze speciali ed esperti in sicurezza informatica. Si vanno ad aggiungere a un numero imprecisato di contractor russi già arrivati sul posto per svolgere le stesse funzioni dei militari – i contractor offrono un vantaggio: il governo russo può sempre smentire che siano in Venezuela al suo servizio diretto. A sentirla così suona come una replica in piccolo – molto in piccolo – dell’iniziativa intrapresa dal governo russo nel settembre 2015, quando spostò un contingente militare in Siria che di fatto invertì il corso delle cose e salvò il presidente Bashar el Assad dalla guerra civile cominciata quattro anni prima. Questa volta però l’Amministrazione americana ha investito molto nel cambio di governo in Venezuela, quindi non soltanto con espressioni di solidarietà, e applica una pressione molto superiore a quella esercitata da Obama che nel 2011 e negli anni seguenti seguì in Siria la dottrina vaga del “don’t do stupid shit”, non fare stupidaggini di cui poi ti pentiresti: in pratica, non prendere iniziative. Mercoledì Trump ha incontrato nello Studio ovale Fabiana Rosales, moglie di Juan Guaidó, il quale si è autoproclamato presidente ad interim e guida il movimento di piazza per cacciare Nicolás Maduro. “Siamo al cento per cento con voi”, ha detto Trump a Rosales – da tempo alla Casa Bianca non si vedeva una dichiarazione di vicinanza così fisica e inequivocabile. Quando i giornalisti gli hanno fatto una domanda sulla presenza dei militari russi a Caracas, Trump ha risposto che “devono andarsene” e che “tutte le opzioni sono sul tavolo”.

 

Di solito questa espressione è una minaccia in codice per dire che gli Stati Uniti sono pronti a usare anche la forza militare, ma con Trump è difficile dire se la linea scelta è davvero questa – di solito poi intervengono dichiarazioni correttive, come è successo con il ritiro “totale” dei soldati dalla Siria annunciato a dicembre e poi diventato parziale. Il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, ha subito ripreso la dichiarazione: “Come il presidente ha detto chiaramente, la Russia deve andarsene”. Ieri a Washington Bolton ha incontrato il vicepremier italiano, Luigi Di Maio, che ha impedito al governo gialloverde di riconoscere Guaidó perché, dice, bisogna seguire il principio di non interferenza – e anche perché i Cinque stelle da sempre sentono molta affinità con Maduro, anche se ora sono più discreti perché hanno cariche istituzionali.

 

Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri russo, ha risposto che Trump prima di intimare ai russi di lasciare il Venezuela dovrebbe ritirare i soldati americani dalla Siria. Mosca non perde occasione per rigirare ogni mossa di Trump a proprio favore. La settimana scorsa i russi hanno detto che se l’America riconosce la sovranità di Israele sul Golan, strappato con la forza alla Siria durante una guerra, allora non si vede perché non dovrebbe riconoscere la sovranità russa sulla Crimea. La risposta di Zakharova fa capire che ai russi piacerebbe molto che gli americani lasciassero la Siria e questo smentisce una dichiarazione fatta da Trump, che aveva detto: “La Russia non è per niente felice del ritiro americano dalla Siria”.

 

Altra differenza con il 2015: cento russi e qualche tonnellata di materiale sono un dispiego di forze ancora molto modesto per fare paragoni con l’altro intervento. Ma non c’era mai stato un contrasto così netto fra Trump e Putin.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)