Donald Trump e Jerome Powell. Foto LaPresse

Così Trump mina l'indipendenza della Fed. Una moda rischiosa

Luciano Capone

Il consigliere economico del presidente verso il board della banca centrale americana. Come in Italia, anche negli Stati Uniti i populisti vanno all'assalto delle autorità terze

Roma. C’è una tendenza all’assalto politico delle Banche centrali – caratteristica dei paesi in via di sviluppo e con curvature autoritarie – che si sta trasferendo anche nelle economie avanzate. Alla base c’è l’idea che l’indipendenza delle Banche centrali, anziché una garanzia di stabilità, sia un ostacolo ai programmi economici del governo e quindi allo sviluppo dell’economia. Questa visione s’intona perfettamente al momento populista e non riguarda solo l’Italia – dove lo scontro tra governo e Banca d’Italia sulle nomine del direttorio non è ancora risolto – ma riguarda anche gli Stati Uniti, dove il board della Federal Reserve opera con soli 5 membri su sette ed è in corso uno scontro sulle nomine.

    

La settimana scorsa il presidente Donald Trump ha annunciato che il suo nome per occupare uno dei due posti vacanti è quello di Stephen Moore, economista della Heritage Foundation e suo consigliere economico durante la campagna elettorale. L’indicazione di Moore, che ha da poco dato alle stampe Trumponomics, un libro che più che descrivere esalta la politica economica del presidente americano, mostra chiaramente questa tendenza alla politicizzazione delle banche centrali. Nei giorni scorsi, seguendo la scia degli attacchi di The Donald, Moore ha scritto che la Fed è una minaccia per la crescita e pochi mesi fa che Trump dovrebbe licenziare il presidente Jerome Powell. Non che alla base ci siano sofisticati ragionamenti sulla politica monetaria, perché quella sembra dipendere esclusivamente dalla parte politica che governa: durante gli anni di Obama le critiche di Moore alla Fed erano per aver tenuto i tassi troppo bassi troppo a lungo, ora che al governo c’è Trump le critiche alla Fed sono per aver alzato i tassi. E la variabile in questo caso è il colore politico di chi comanda, non le condizioni dell’economia. Perché naturalmente era proprio durante gli anni di Obama, quando l’economia era depressa o in ripresa, che c’era bisogno di denaro più facile; mentre adesso, durante l’amministrazione Trump, la situazione è l’esatto contrario.

    

Trump avrebbe potuto scegliere economisti di area, autorevoli e indipendenti, come John Taylor di Stanford, ma ha preferito un tifoso. Rispetto alle quattro precedenti nomine, incluso il presidente della Fed, questa è stata giudicata la peggiore, in maniera abbastanza bipartisan. Ovviamente da parte degli economisti progressisti, in prima fila il Nobel Paul Krugman, ma non sono mancate le dure critiche degli economisti del fronte conservatore. Il più rappresentativo è Greg Mankiw, economista ad Harvard ed ex capo economista di George W. Bush, che sul suo blog ha scritto un post in cui dice: Trump ha fatto finora buone nomine per la Fed, ma Moore “non ha la gravitas intellettuale per questo importante lavoro”, concludendo che “è tempo che i senatori facciano il loro lavoro: Moore non deve essere confermato”. La nomina infatti non è così scontata, perché necessita del parere favorevole del Senato dove i repubblicani hanno un solo voto di maggioranza e, tradizionalmente, sono per una politica monetaria prudente e una Banca centrale indipendente (perché nel lungo termine la minore indipendenza è associata a una maggiore inflazione). E anche i due precedenti nomi indicati da Trump, Nellie Liang e Marvin Goodfriend, entrambi più qualificati di Moore, non hanno ottenuto il parere positivo del Senato.

   

Quello che accade negli Stati Uniti ci insegna due cose. La prima è che la politicizzazione delle istituzioni e delle Autorità indipendenti è un tratto comune dei cosiddetti populismi. La seconda è che per difendersi da questo pericolo c’è bisogno sia di un sistema istituzionale forte (i cosiddetti check and balances) sia di una società civile pronta a difendere dei principi indipendentemente dall’appartenenza politica. In Italia, la palese aggressione e l’agevole occupazione delle autorità di garanzia di questi ultimi mesi hanno dimostrato che, a differenza degli Stati Uniti, abbiamo un sistema istituzionale flessibile e un’opinione pubblica indifferente.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali