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Potere giudiziario, politica, giornalisti. Perché il rapporto Mueller ci riguarda

Daniele Raineri

Il procuratore speciale prende atto del fatto che non può essere lui a incriminare il presidente americano. Le differenze tra l’inchiesta americana e la prassi italiana

New York. Il punto centrale del rapporto Mueller reso pubblico giovedì (soltanto in parte perché un po’ più del dodici per cento è ancora segreto) è che il procuratore speciale prende atto del fatto che non può essere lui a incriminare il presidente americano. E’ dai tempi di Nixon che l’ufficio legale del dipartimento di Giustizia americano ha chiarito che l’incriminazione di un presidente durante il suo mandato può essere fatta soltanto dal Congresso e Mueller si attiene alla linea: questi sono i fatti, scrive, e ora vedetevela voi. La rivista Atlantic scrive che il suo rapporto è un “impeachment referral”, vale a dire è un trasferimento di giudizio. Si tratta di un caso diverso dalla normale procedura in cui la pubblica accusa è chiamata soltanto a portare il caso in tribunale oppure a lasciarlo cadere: in questo caso l’oggetto dell’inchiesta è la condotta del presidente degli Stati Uniti e quindi la decisione spetta non al potere giudiziario, ma al potere politico di chi è stato eletto. Non è per nulla chiaro se al Congresso i democratici proveranno a far partire un impeachment contro Trump, perché dentro al partito molti pensano che non darebbe frutti politici, ma anche se ci provassero non avrebbero i numeri finali per ottenerlo.

 

Le differenze tra l’inchiesta di Mueller e la prassi italiana sono molto chiare. Prima di tutto, in Italia spesso sono le procure a passare ai giornalisti le informazioni dall’interno delle inchieste mentre sono ancora in corso, intercettazioni incluse. Robert Mueller, ex comandante di plotone nei marine ferito nella guerra in Vietnam a 24 anni ed ex direttore dell’Fbi per dodici anni, ha condotto un’inchiesta a tenuta stagna da cui non è trapelato nulla – anche se per quasi due anni si è avvalso del lavoro di decine di collaboratori e la stesura del rapporto ha coinvolto un numero spropositato di avvocati. Tutti gli scoop che nel frattempo uscivano sui giornali, in testa il New York Times e il Washington Post, sono stati ottenuti grazie a fonti che non facevano parte della squadra di Mueller e poi sono stati confermati due giorni fa dal rapporto. A proposito: quando a fine marzo il ministro della Giustizia, William Barr, ha provato a condensare il rapporto in quattro pagine, il presidente Trump ha fatto finta che fosse un riscatto spettacolare anche contro la stampa “nemica del popolo”, ma in realtà la vindication è a favore dei giornalisti. Quello che scrivevano grazie a fonti che spesso avevano trovato fin dentro la Casa Bianca era vero. In Italia, gli articoli sono spesso stesi grazie al materiale passato dalla pubblica accusa e quindi capita – vedi cosa è accaduto con il caso Consip – che crollino quando crollano le accuse.

 

Il punto centrale resta che Mueller s’è fermato prima di decidere sul reato di ostruzione alla giustizia perché in America s’è stabilito che un procuratore non può rimuovere un presidente e a quel punto la decisione deve passare alla politica – e questo, scrive nel rapporto, non vuol dire che stiamo esonerando il presidente. Ora si capisce perché all’indomani della lettera di Barr, quindi quando ancora non si conosceva il contenuto del rapporto, il presidente Trump ha elogiato molto Mueller – “E’ un’assoluzione totale e completa. Il rapporto Mueller è fantastico. Non poteva essere meglio di così” – e perché invece da due giorni ha ricominciato con le accuse di un complotto ordito contro di lui da nemici subdoli. Ora che tutti possono leggere il rapporto, Mueller è tornato a essere cattivo.

 

Ci sono molti altri punti, che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane troveranno spazio. Trump accusa i suoi nemici di fare parte del cosiddetto deep state, vale a dire dell’oscuro macchinario statale che s’annida fra le agenzie governative – servizi segreti inclusi, anzi specialmente – e che resta anche quando cambiano i presidenti e che tenta di condizionare la politica americana. Ma nel rapporto si legge che ha chiesto alla Cia e alla Nsa, le due agenzie dei servizi segreti più potenti, cosa potevano fare per bloccare l’inchiesta. In pratica ha fatto quello di cui accusa i suoi avversari. E Assange non esce per nulla come un paladino della trasparenza, ma come un agente provocatore che lavorava in coordinamento con i servizi segreti di Putin. More to come, come si dice nelle serie televisive, ci sarà un seguito.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)