Robert Mueller (foto LaPresse)

Il giorno di Mueller

Daniele Raineri

Oggi l’audizione sul Russiagate riaccende le speranze dei democratici, che però su Trump sono sempre confusi

Roma. Oggi l’ex procuratore speciale Robert Mueller compare davanti alla commissione Giustizia del Senato americano per tre ore e davanti alla commissione che sorveglia le attività di intelligence per altre due ore, per rispondere alle domande dei senatori. Mueller ha diretto per quasi due anni l’inchiesta che avrebbe dovuto stabilire se Trump ha colluso con il governo russo per vincere le elezioni nel 2016 e se ha tentato di ostacolare le indagini e aveva da tempo detto in modo molto chiaro che non voleva essere ascoltato. Il rapporto, secondo lui, doveva essere sufficiente. Invece i democratici lo hanno convocato per altri chiarimenti, lui non si può sottrarre e in quest’appuntamento di oggi – che pure è molto atteso – si legge tutto l’impaccio di un partito che parla molto di rimuovere dalla Casa Bianca il presidente Donald Trump (prima o poi) ma non ha ancora deciso come.

 

L’inchiesta si era conclusa a marzo dopo uno stillicidio di rivelazioni e dopo avere inferto danni considerevoli allo staff di Trump – il suo ex direttore della campagna elettorale e il suo ex avvocato sono in prigione – ma non è arrivata a una conclusione definitiva. Il rapporto di Mueller nelle pagine finali afferma che il procuratore speciale non può incriminare Trump perché la Costituzione non gli assegna il potere di giudicare un presidente in carica, ma che questa non dev’essere considerata come un’assoluzione. In pratica dopo aver detto che di fatto Trump ha tentato di ostacolare l’inchiesta – e quindi ha commesso un reato che vale l’impeachment – Mueller ricorda a tutti che spetta al Congresso e non a lui decidere se incriminare Trump oppure no. Il presidente ha voluto sfruttare questa ambiguità come una assoluzione piena: “No collusion! No obstruction!”, ha twittato. Questo finale sospeso ha creato una spaccatura dentro al Partito democratico, perché la vecchia guardia guidata dalla speaker Nancy Pelosi raccomanda di non procedere con l’impeachment (non ci sono i numeri al Senato, finirebbe con un altro trionfo di Trump).

 

Molti altri invece vorrebbero una battaglia, seppure simbolica, per mettere sotto accusa il presidente e costringerlo a difendersi per tutti i quindici mesi che mancano alle elezioni 2020. “Impeach the motherfucker!”, ha riassunto per tutti lo scorso novembre Rashida Tlaib, una deputata che fa parte della cosiddetta “squad” – la squadra di quattro elette alla Camera guidata da Alexandria Ocasio-Cortez che calamita moltissima attenzione.

 

Il dipartimento di Giustizia ha mandato una lettera a Mueller imponendogli di non dire altre cose oltre a quelle già contenute nel suo rapporto, ma si tratta di un’intimazione senza alcun valore e il portavoce dell’ex procuratore ha detto che Mueller è libero di dire quello che vuole (seppure sia recalcitrante).

 

Trump è un leader così anomalo che i suoi avversari non hanno ancora ben capito come procedere contro di lui. C’è chi ancora insegue Mueller perché spera che i due anni di indagine del procuratore abbiano il potenziale per danneggiare il presidente, ma a meno che oggi in Senato non spuntino informazioni inaudite non pare proprio il caso. Come in Italia lo schema segreto per incanalare denaro russo verso la Lega di Matteo Salvini non intacca – per ora – la sua base elettorale, così in America i fan di Trump non cambieranno idea per questo tipo di rivelazioni. Tim Wise, un consulente politico che diede battaglia politica contro il nazista David Duke in California negli anni Novanta, ha scritto una denuncia molto chiara contro i candidati democratici, che s’illudono di battere Trump parlando di programmi politici come se fosse un’elezione normale. In questo modo, sostiene Wise, gli elettori stanno a casa perché non percepiscono alcuna urgenza. Il voto del 2020 dev’essere trasformato in un referendum senza appello su come vogliamo essere rappresentati – da Trump? – e sul pericolo estremo che corre l’America in caso di un secondo mandato. Tanto la base trumpiana gli resterà fedele e non cambierà idea, è necessario mobilitare tutto il resto degli americani. Il parallelo fra Duke allora e Trump oggi è chiaro, ma il Partito democratico per ora non è su questa posizione.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)