Un fotogramma del video dell'attentatore di Christchurch pubblicato su Facebook

I social non han saputo rimuovere un attacco terroristico volutamente virale

Eugenio Cau

Lo stragista di Christchurch aveva un piano per diffondere in maniera esponenziale il suo messaggio d'odio online. Le piattaforme digitali hanno un problema strutturale

Milano. Mentre l’attacco di Christchurch, in Nuova Zelanda, era ancora in corso, e l’attentatore si stava spostando dalla prima alla seconda moschea dove avrebbe concluso il massacro di 49 musulmani innocenti, tutto il materiale che lo riguardava, compresi il suo manifesto ideologico e il video di 17 minuti in cui il primo attacco era stato ripreso in diretta Facebook, era già visibile su internet, condiviso, diffuso, postato e ripostato. “Il massacro in Nuova Zelanda era già stato trasmesso in diretta su Facebook, annunciato su 8chan, ripreso su YouTube, commentato su Reddit e diffuso in tutto il mondo prima che le compagnie tecnologiche potessero anche soltanto cominciare a reagire”, ha scritto venerdì su Twitter il giornalista del Washington Post Drew Harwell, che poi ha aggiunto, a giornata già avanzata: “Sono passate otto ore e si può ancora vedere il video su YouTube”.

   

 

Non è la prima volta che atti violenti vengono ripresi in diretta sui social. Nel 2015, una ragazza francese riprese il proprio suicidio in diretta sulla app Periscope, e da allora i casi di questo genere si contano a decine, e riguardano anche omicidi di massa. Ma l’attenzione con cui il terrorista di Christchurch ha programmato la diffusione del video e del materiale, e le infinite tracce digitali lasciate in giro per la rete in modo che fossero facili da trovare, mostra che l’uomo aveva una strategia ben programmata: rendere il suo atto terroristico virale.

  

All’inizio del video, prima di scendere dalla sua automobile e andare a sparare in moschea, il terrorista dice: “Subscribe to PewDiePie”. PewDiePie, vero nome Felix Kjellberg, è lo youtuber più famoso del mondo, che troppe volte è stato coinvolto in polemiche per il suo coinvolgimento in contesti razzisti e antisemiti (era satira, dice lui). Di recente “Subscribe to PewDiePie” è diventato un famoso meme di internet, molto apprezzato negli ambienti di estrema destra, e citandolo nel video del suo massacro il terrorista ottiene diversi risultati assieme: genera consenso e cameratismo in quella larga fetta di sostenitori di PewDiePie che si riconoscono nell’estrema destra; eccita i facili collegamenti dei media; costringe PewDiePie a dissociarsi dall’attentato, con un post su Twitter che automaticamente dà notizia dell’attacco ai suoi 17 milioni di follower. Il video dell’attacco, così come il manifesto dello stragista, sono pieni di elementi simili: riferimenti più o meno nascosti alla cultura di internet, specie quella dell’estrema destra, che da un lato servono a trasformare l’attacco in un meme, in un elemento virale che si diffonde su internet in maniera esponenziale, e dall’altro servono – come ha notato Bellingcat – a fare shitposting, che significa: affogare ogni discussione in una marea di contenuti marginali per distogliere l’attenzione, far deragliare una conversazione e aumentare le divisioni.

 

Davanti a questa strategia, le piattaforme di internet sono praticamente inermi. Facebook ha cancellato la fonte originale del video abbastanza rapidamente, ma ormai decine, forse centinaia di sodali, approfittatori o semplici curiosi avevano già scaricato il video, e hanno cominciato a pubblicarlo su altre piattaforme come YouTube o in versioni leggermente modificate, in modo che gli algoritmi di controllo dei contenuti facessero fatica a trovarle. Su Twitter, migliaia di persone hanno ritwittato lo stesso video, magari senza malizia, con il risultato che la grande operazione di propaganda del terrorista di Christchurch è andata in autoplay infinite volte. Il problema non è soltanto che le piattaforme non hanno i mezzi per evitare che questi contenuti si diffondano ovunque. Strutturalmente, Facebook Twitter e YouTube sono pensati per consentire agli utenti di scrivere e postare ciò che vogliono quando vogliono, senza controlli. E’ il modo migliore per aumentare il proprio pubblico, ed è il modo migliore per estrarre i dati personali che costituiscono l’architettura del modello di business di queste compagnie. Così le piattaforme si trasformano dapprima in diffusori involontari, poi in radicalizzatori perché, come vaneggiava il terrorista nel suo manifesto, “soltanto su internet si trova la verità”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.